È talmente noto questo spaccato di storia umana e politica del nostro Paese che la domanda sorge spontanea: ha ancora senso proporre oggi uno spettacolo su Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia che (si dice) morì suicida dopo l’attentato a Paolo Borsellino? E, soprattutto, è in grado di sollecitare riflessioni ulteriori, rispetto a tutto quello che già si è detto, ricordato, celebrato, ma forse anche rimosso e accantonato? Intendo dire: il teatro può incidere e offrire occasioni per disseppellire il rimosso dalle nostre coscienze pacificate solo perché non compromesse oppure deve, al limite, accontentarsi di diffondere pedagogicamente un po’ di storia nelle scuole, persuaso di fare teatro civile informando e proponendo modelli esemplari?
La risposta è sì e lo è per una quantità di ragioni che la visione dello spettacolo dedicato, Rita Atria. Un’adolescente contro la mafia, mi ha chiarito meglio.
Presentato al Binario 30 di Roma, spazio diretto da Caterina Venturini che ha anche firmato la regia e il testo, a due mani con Francesco Rallo, ex padrino esponente della mafia trapanese con quarant’anni di carcere sulle spalle, lo spettacolo è proprio una lente di ingrandimento sui caratteri e le storture di donne e uomini reali, assurti a personaggi. Individui con nomi e cognomi divenuti simboli e archetipi di un mondo altro, che vive di codici e regole tanto più assurde quanto più a loro paiono ovvie.
Più che di storia e di connivenze tra Stato e mafia, qui si parla di natura umana, e la corruzione in primo piano non è quella ai vertici, che regge le fila, ma quella alla base, fatta di menti e intelligenze forgiate su un’endemica deformazione, su un patto sociale radicato, dato da sempre come unico possibile. Da sempre. Perché non solo non c’è altra via ma non c’è un altro stato di cose. Di lì non si esce. Le altre vie non servono, non ci sono, nessuno ha da percorrerle.
O stai dentro o stai fuori, ma se stai fuori sei il nemico. Sono cose che si sanno. Parole come onore, rispetto, tradizione oppure infamia, disonore, tradimento hanno un significato preciso, ma per ognuno diverso. Noi e loro, dentro e fuori.
Per questo, passare dal dentro al fuori significa non solo scavalcare i paletti e uscire dal rassicurante recinto che ti protegge, ma comporta un atto di hybris innaturale. Qualcosa che non ha solo a che fare con il ravvedimento, ma con una radicale crisi di coscienza. Oppure significa che sei proprio diverso, strutturalmente diverso, significa che sei altra cosa: anche rispetto a tua madre che ti ha generato.
E se qui si apre una considerazione pericolosa e affascinante da rinviare ad altra occasione, è certo che quello di Rita sia stato un atto rivoluzionario e assoluto. La sua ribellione al sistema, l’unico sistema che le era dato conoscere, è nata come ribellione intestina alla famiglia, agli affetti, alle uniche certezze di cui una ragazzina di sedici anni poteva disporre.
Per questo fare di lei una figura tragica da consegnare al teatro e non soltanto alla memoria pare quasi un atto dovuto. Rita è un’Antigone che ha rifiutato la legge del clan in nome di una superiore giustizia che per lei aveva il volto pulito di Paolo Borsellino, ma è anche una sorta di Oreste che ha indicato la via per un nuovo ordine da rifondare. Percorrendola lei stessa, da quell’angolo buio di Sicilia fino a chissà quale luogo segreto dove sopravviveva protetta, per poi ritornare con l’abito buono e la sfrontatezza dei sedici anni a sfilare nella via principale della sua città, sotto le finestre serrate per la vergogna e il disprezzo.
Della tragicità di questa figura lo spettacolo ha colto l’intima natura, lavorando sul suo conflitto interiore e su quello riflesso dei singoli personaggi, ognuno esposto ai richiami del dentro e del fuori: il nero e il bianco, il vecchio ordine e il nuovo.
Il fatto che il conflitto sia risolto a priori, sostanzialmente eluso da chi ha già fatto la sua scelta definitiva, non significa risparmiarlo allo spettatore, messo opportunamente di fronte a due possibilità.
Ed è con questa acquisizione, crediamo, che la regia articola le relazioni tra i personaggi all’interno di due voci opposte: due sirene che sollecitano, dirimono, commentano, preannunciano come una sorta di coro greco, scontrandosi frontalmente e a tratti interagendo con gli altri personaggi: l’una affidata a Elisabetta Mancini, l’altra a Maurizia Grossi, la sola senza inflessione siciliana e anche colei che scopriremo rinviare al personaggio di Piera Aiello, vedova del fratello di Rita, anche lei testimone di giustizia dopo avere assistito all’uccisione del marito.
Da una parte il male, a tutto tondo, senza riserve, che istiga e divide gli affetti più cari, arrivando fino a suggerire alla madre di denunciare Borsellino per sottrazione di minore; dall’altra la lieve resistenza del bene, che non soffoca, non minaccia, non castiga ma consola e illumina con uno scialle chiaro e la voce cristallina.
Nel ruolo di Rita, Irene Pietracci, giusta sia fisicamente sia nel rendere la drammaticità del personaggio, profondamente scisso tra affetti e morale, dolente ma solidissima anche di fronte alle rivelazioni, vere e proprie agnizioni, sulla sua famiglia. La madre (Paola Pirri) è la quercia cattiva, inamovibile nel suo rigore omertoso, ferita nell’onore molto più che negli affetti. E così il fidanzato (Gregorio Valenti), una pedina senza coscienza da risultare impunito, la piccola convenienza che la fa franca, casca in piedi, non si scompone né si strugge d’amore. Insomma, uno dei tanti tontoloni che si offrono ai raggiri, di quelli che circolano in ogni dove e che ben corrispondono a quella mafia apparentemente incolpevole di cui si ciba la Colpa.
Paolo Borsellino invece è Maurizio Palladino, esempio di mimesi quasi perfetta: un’adesione fisica ed emotiva al giudice e all’uomo, come il cinema non ci ha ancora restituito.
Fuori campo, la voce di Francesco Rallo, coautore, fa una certa impressione.
Ma di più fa impressione il pensiero che Rita avesse l’età dei nostri figli e nipoti a cui mancano due anni all’esame di maturità.
Morì una settimana dopo l’attentato a Borsellino, precipitando dal settimo piano del condominio romano in cui viveva segregata. E per molti anni si parlò di suicidio.
Rita Atria. Un’adolescente contro la mafia
scritto da Francesco Rallo e Caterina Venturini
regia Caterina Venturini
con Maurizia Grossi, Maurizio Palladino e Elisabetta Mancini, Irene Pietracci, Paola Pirri, Gregorio Valenti.
Binario30 Teatro, Roma, dal 26 al 28 maggio 2023.
La prima replica, per ora, è prevista il 10 giugno 2023, sempre al Binario30.