Il segno della terza edizione pensata da Piersandra Di Matteo per Short Theatre 19, conclusasi il 15 settembre scorso, si evidenzia con maggiore nettezza nella progressione e nella rimessa in circolo di concetti e intuizioni, derubricati in questa contemporaneità ormai orfana di maestri o maestre che sembrerebbe rilucere per riflessi o eco interiorizzate, quando non per riappropriazioni. È il sentimento e le posture che assume questo tempo a darci il senso di frizione con il quale misuriamo la nostra capacità di esserci nelle cose, e dunque del confrontarci con il gesto artistico, comprenderne le sbavature, le difformità rispetto a un ordine sempre più ricercato, se non indotto, così tanto da generare un gusto laddove quell’ordine altro non è che un modo per irreggimentare la sovversione di cui è generatrice una certa esperienza d’arte che avevamo imparato a chiamare minoritaria, poi indipendente, oggi felicemente “confusa” col pop, quando al pop deleghiamo una leggibilità orizzontale ma, al contempo, una dispersione di segni senza rinunciare alla vita che si presenta con tutto il suo portato di parentesi incaute. Scrive Édouard Louis a proposito della vita: «Mi hanno detto che la letteratura non deve mai ripetersi e io voglio scrivere solo la stessa storia, ancora e ancora, ritornarci finché non lascia intravedere frammenti della sua verità, scavarci dentro un buco dopo l’altro finché ciò che è nascosto dietro non comincerà a stillare… Mi hanno detto che la letteratura non deve mai somigliare a un manifesto politico e già affilo ogni frase come se fosse la lama di un coltello» (Édouard Louis, Lotte e metamorfosi di una donna, La nave di Teseo, Milano, 2021, pp. 17-18).
Mette Ingvartsen è una di quelle figure nel contesto della danza capace di riformulare con approcci e risvolti inaspettati il codice stesso del pensiero nel contemporaneo, approdando a una formazione apparentemente organica ai cliché del moderno, con tanto di studi presso la scuola P.A.R.T.S. fondata da Anne Teresa De Keersmaeker, per poi “ribellarsi” ai suoi assiomi. A Short Mette Ingvartsen ha portato lo spettacolo Rush pensato per la performer Manon Santkin, un lavoro “scomposto” temporalmente nel definire l’accadere, rileggere la pratica della performance assolvendo a quel procedere per destrutturazioni e montaggi sempre aggiornati di oggetti scenici, volti a presentare l’approccio o nel decostruirne l’esperienza, recuperando in questo modo il vocabolario di un possibile archivio che, di fatto, si propone come archivio vivente: il suo corpo. Il corpo della performer è il corpo narrante di uno “stress” linguistico, una accelerazione quasi sempre a ridosso di uno schianto emotivo (che invece tiene con maestria formale), è persino la memoria sonora e percettiva del passato di questa stessa performance nei suoi processi di prove, di definizione dello spazio, di riscattato rispetto alla struttura inevitabilmente suscettibile fatta di varianti temporali.
Rush si colloca in quel racconto di sé “morale” perché è disciplina, un racconto che ha attraversato come soggettiva estroflessa tante figure e intellettuali novecenteschi e non solo, una sorta di frammentazione di un immaginario (rigorosamente corporeo) che si lascia assemblare un’altra volta; è il punto in cui viene rivelata la prassi, congegno dove l’organico si dispiega grazie alla sostanza del pensiero, il punto – o meglio – la sintesi tra memoria e materia. Mette Ingvartsen sceglie di ripercorrere il suo lavoro scenico per segnare, riprendere, rivelare (si diceva), in qualche modo sondare o sondare una volta ancora con occhi e corpo aggiornati all’atto creativo dell’adesso. E si fa spettacolo Rush, spettacolo ovvero orchestrazione di un puzzle “memorabile” di un atto di sovrapposizione e trasparenza dove Manon Santkin alberga nel fiato compositivo di Mette Ingvartsen, l’una e l’altra nella temporalità di un’opera che ne trattiene molte altre (ogni volta nella rimediazione delle azioni, nell’abitare quel corpo con presupposti aggiornati, nel riappropriarsi di un passato senza un malinconico recupero rétro).
Quelle porzioni, quelle frasi coreografate tornano a dirci di un tempo ch’è il nostro, arrivano dalla sua storia eppure magistralmente (per la coreografa? per la performer?) ci parlano, seppure proprio dalle parole della coreografa. In questo senso, Rush potremmo leggerlo come un escamotage, proprio per il suo recupero di pezzi antichi riofferti in questa nuova versione. Dentro uno spazio disadorno troviamo teli termici, un fondale anonimo, tavolo e altoparlante che hanno il sapore di una orchestrazione di materiali pronti a disegnare architetture che mai si compiranno. E c’è sempre una costruzione in fase, una partitura che si fa mentre si compie per poi dissolversi nella piena luce che accompagna per tutto il tempo, in dialogo col pubblico e tra sé, un atto di confidenza, di messa a disposizione dei propri materiali emotivi, quei ricordi dietro le quinte, del bisogno di urinare prima di entrare in scena, della sua nudità eversiva perché di una bellezza dichiaratamente “vera”, del ricomporre pezzi di altri spettacoli che si stratificano, modificano o amplificano, come quando la performer indossa una maschera sulla nuca e spostandosi col corpo rovesciato ad arco crea l’immagine di una figura kafkiana animalesca. Questo scatto à rebours sottende magistralmente la volontà di recuperare, riadattare, ripensare anche con straordinaria agilità percettiva ciò ch’è stato e che è stato fatto, inverando anche ciò che non si è più (in quella rifrazione alla Joris-Karl Huysmans), un gioco forse dove si accumulano reperti metaforici (e tecnologici) con sagacia e sensualità, mediata quest’ultima dagli stessi spettatori che danno suono sul palco a un orgasmo.
Rush
concetto e coreografia Mette Ingvartsen
con Manon Santkin
assistente coreografico Thomas Bîrzan
direzione tecnica e disegno luci Hans Meijer
tecnico del suono e sound design Milan Van Doren
assistenza tecnica Jan-Simon De Lill
musica Will Guthrie, Peter Lenaerts, Gregorio Allegri, Gene Krupa and Buddy Rich, Benny Goodman
produzione Great Investment vzw
co-produzione STUK co-finanziato da Creative Europe programme of the European Union per DANCE ON PASS ON DREAM ON, VIERNULVIER, Festival Montpellier Danse 2024, Tanzquartier Wien, Charleroi danse centre chorégraphique de Wallonie – Bruxelles, SPRING, CND Centre national de la danse, Perpodium.
Great Investment è supportato da The Flemish Authorities, Tax Shelter of the Belgian Federal Government, The Danish Arts Council & The Flemish Community Commission (VGC).
Short Theatre, La Pelanda, Roma, 11 e 12 settembre 2024.