Short Theatre: un perturbante straniamento di Carolina Germini

Foto di Claudia Pajewski

A teatro può succedere di tutto. Si può anche entrare convinti di essere solo spettatori e ritrovarsi invece improvvisamente giudici di una corte che dovrà stabilire quale pena attribuire a un criminale, in questo caso Charles Manson. Una situazione paradossale ed estraniante quella a cui la compagnia Fanny & Alexander dà vita con lo spettacolo Manson, presentato durante quest’ultima edizione di Short Theatre e andato in scena al Teatro Basilica il 7 e l’8 settembre.
Non è la prima volta che Chiara Lagani e Luigi De Angelis immaginano e costruiscono una macchina che rovescia il dispositivo teatrale a cui siamo abituati. È un esperimento simile a quello portato avanti con Maternità, in cui il pubblico era chiamato, attraverso un telecomando, a rispondere a un questionario, che in base alla voce della maggioranza, guidava e definiva la direzione scenica.
Se in quel caso, però, le nostre opinioni avevano un peso effettivo, tracciando la drammaturgia e le azioni dello spettacolo stesso, attribuendo quindi ai presenti una responsabilità, qui il nostro ruolo è ben diverso e si limita ad interrogare l’imputato con una serie di domande che ci vengono consegnate all’inizio. L’unica libertà di espressione che ci resta, quindi, è quella di scegliere quale vogliamo rivolgere a Manson. Più che determinare, quindi, la traiettoria, stabiliamo l’ordine con cui i pezzi del puzzle si incastrano tra loro. Ma l’immagine finale è già definita dall’inizio. E non cambierà.

Foto di Claudia Pajewski

Anche se il meccanismo che ci coinvolge all’inizio ci conquista, alla lunga ci rendiamo conto che la nostra partecipazione è fittizia, che non siamo veramente noi a determinare le sorti dell’imputato e che il nostro interrogatorio non altera realmente le sue reazioni in scena che sono tutte più o meno simili.
È proprio qui che il dispositivo messo a punto, nonostante la sua originalità, si inceppa, mostrando con più evidenza la sua fragilità e debolezza. È un gioco che finisce per stancarci nel momento in cui realizziamo che le nostre domande non incidono concretamente sul tessuto scenico. Diverso, forse, sarebbe l’effetto se non conoscessimo fin dal principio il contenuto delle domande che verranno poste, se a ogni spettatore ne venisse assegnata una che gli altri ignorano o se Manson ci sorprendesse con reazioni meno misurate.
Ad indossare i panni dell’accusato è l’attore Andrea Argentieri, che ci accoglie di spalle per poi agitarsi sul palco come un leone in gabbia. Le sue risposte elusive ne rivelano la natura istrionica, delirante, ma anche impressionantemente lucida. Ne subiamo il fascino, l’acutezza e la raffinatezza dei ragionamenti, la capacità di rovesciare le domande che gli vengono poste con altri interrogativi, così da ritrovarci da giudici ad accusati. Mentre lo seguiamo nel suo incedere nervoso, abbiamo la sensazione di addentrarci nei meandri della sua mente, di capire il senso del suo agire.
Da questo deriva il senso di straniamento che proviamo: nel percepire quello che ci viene presentato all’inizio come un criminale come un acuto osservatore, come un uomo che agisce secondo un piano definito e che porta avanti una sua filosofia.

Ci lasciamo alle spalle l’aula del tribunale che il Teatro Basilica ha ospitato per il tempo del processo e ci dirigiamo verso Testaccio. Destinazione Mattatoio. Luogo che, per il suo passato, evoca immagini cruente che in qualche modo ci tengono ancorati, legati alla violenza perpetrata da Charles Manson e dai seguaci della sua setta. Nello spazio immenso de La Pelanda, ci immergiamo nel buio della sala. Ad accoglierci sulla scena c’è una figura di cui non riusciamo a definire i contorni e la natura. E di nuovo quel senso di straniamento ci insegue, come una mosca che non siamo riusciti a scacciare.

Foto di Claudia Pajewski

Il regista e autore teatrale Stefan Kaegi, con la compagnia teatrale tedesca Rimini Protokoll, di cui è uno dei fondatori, assegna la scena a un robot, la cui somiglianza con una figura umana è tale da portarci a vivere quella sensazione che poi dà il titolo allo spettacolo: Uncanny Valley. La Valle del Perturbante. Una distorsione cognitiva ipotizzata dallo scienziato giapponese Masahiro Mori, osservando la risposta del pubblico ai nuovi effetti speciali sperimentati nell’animazione. Dai suoi studi ha riscontrato come lo spettatore, di fronte a creature sempre più simili agli esseri umani, all’inizio aumenti il suo gradimento ma poi, quando la somiglianza è fin troppo simile a quella umana, la sensazione si inverte, fino a genere un senso di perturbante.  Il perturbante, per come Freud lo ha definito, «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare», ci invade. Quella figura robotica sul palco, che scopriamo essere il doppione animatronico dello sceneggiatore Thomas Melle, si racconta al pubblico e lo fa attraverso una gestualità e una calma che ci incanta e ci cattura. Finiamo per dimenticare che a parlarci non è un essere umano. Il suo eloquio e le sue riflessioni superano ogni limite tecnologico e ci fanno abitare, per il tempo della sua conferenza, uno spazio indefinito, che ci fa sentire scomodi, così come ci sentivamo scomodi sulle sedie dell’aula del tribunale in cui eravamo stati chiamati a giudicare Manson. E così quel primo straniamento si innesta in questo perturbante e ne usciamo turbati e confusi.

Foto di Claudia Pajewski

Manson

ideazione, regia, luci, progetto sonoro Luigi De Angelis
drammaturgia, costumi Chiara Lagani
con Andrea Argentieri
consulenza linguistica e fonetica Gabriella Gruden-Poni
produzione e production Fanny & Alexande
in collaborazione con Olinda/TeatroLaCucina.

Short Theatre, Teatro Basilica, Roma, 7 e 8 settembre 2024.

Uncanny Valley

idea, testo e direzione Stefan Kaegi 
testo, corpo, voce Thomas Melle
equipaggiamento Evi Bauer
animatronic Chiscreatures Filmeffects GmbH
manifattura e finitura della testa in silicone Tommy Opatz 
manifattura e finitura della testa in silicone (2023Ina Chochol
punzonatura capelli Susanna Lang
sistema di montaggio e sistemazione animatronic Jörg Steegmüller/Steegmüller Skulpturen
drammaturgia Martin Valdés-Staube
video design Mikko Gaestel
musica Nicolas Neecke 
production management Rimini Protokoll
touring Monica Ferrari
disegno luci Robert Läßig
design sound e video Jaromir Zezula
prodotto originariamente da Münchner Kammerspiele
co-produzione con Berliner Festspiele – Immersion, donaufestival (Krems), Feodor Elutine (Mosca), FOG Triennale Milano Performing Arts (Milano), Temporada Alta – Festival de Tador de Catalunya (Girona), SPRING Utrecht
diritti Rowohlt Theater Verlag, Reinbek bei Hamburg
in collaborazione con l’Accademia Tedesca di Roma Villa Massimo e il Goethe-Institut, sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri Tedesco.

Short Theatre, La Pelanda, Roma, 7 e 8 settembre 2024.