Apprezzo molto la drammaturgia di Lucia Calamaro da quando si è rivelata col suo magnifico testo sulla malattia tumorale diversi anni fa (Tumore. Uno spettacolo desolato, 2004). Leggendo, però, prima dello spettacolo a cui ho assistito al teatro Quirino, le sue note di regia, sono stato assalito da forti dubbi circa le scelte dell’autrice e, per l’occasione, regista, in vista della messa in scena di Si nota all’imbrunire. La Calamaro si appoggia alla “socio-psicologia” e all’individuazione di una patologia, la “solitudine sociale”. Personalmente credo solo parzialmente alla sociologia come chiave di lettura della realtà, essendo basata su criteri statistici e molto spesso astratti, e difficilmente in diretta conseguenzialità con la vita delle singole persone. Ugualmente credo poco alla psicologia, soprattutto nei suoi fondamenti (freudiani e postfreudiani) terapeutici, essendo la psiche umana sottoposta a variabilissimi stati umorali, all’instabilità delle emozioni, e condizionata da un fondo subcoscienziale e alle determinazioni inconsce, che poco margine lasciano in moltissimi di noi a un equilibrio esistenziale e relazionale ben assestato. Non parliamo poi delle vere e proprie malattie mentali, sulle quali ancora c’è moltissimo da studiare e da realizzare sul côté delle cure.
Semmai, a mio parere, e non solo mio, le strade son altre, e non nego che oggi come oggi si cerca in molti di percorrerle: son le strade che portano al Sé, iniziando dalla basilare regola del cercare la verità in sé stessi, ma sapendo che la verità non è un criterio da noi individualmente e relativisticamente stabilito, ma deve avere necessità e forza in riferimenti assoluti di natura storico-antropologica, filosofica, religiosa, occidentali-orientali.
Ma restiamo allo spettacolo che mi ha deluso credo proprio perché ancorato sulle sabbie del sociologico-psicologico. I personaggi, a partire dal protagonista Silvio, non hanno un’evoluzione né, tanto meno, una metanoia finale in un arco drammaturgico con un minimo di dinamicità. Sia Silvio (Silvio Orlando), sia i tre figli, Vincenzo (Vincenzo Nemolato), Alice (Alice Redini), Maria (Maria Laura Rondanini), e il fratello Roberto (Roberto Nobile) son bloccati nelle loro personali manie, reiterando gesti, parole, atteggiamenti in modo tautologico, che non sposta nulla delle loro interrelazioni, e che finisce anche per annoiare in più momenti lo spettatore. Ciò che in una prospettiva di poesia scenica dovrebbe scattare, cioè non un’ambiguità delle scelte testuali e registiche, ma nella sussistenza coerente di più piani di realtà, nella pièce di Lucia Calamaro non si realizza pienamente. Tanto che il finale, in cui non si capisce se Silvio ha tutto sognato, sta ancora sognando o si è ritrovato ancora una volta solo, ma per libera scelta, non riesce a mio parere a commuovere più di tanto. Il vedovo Silvio, nella commemorazione decennale della morte della moglie, si dilunga, a conclusione della vicenda rappresentata, in un monologo interiore che, scenicamente, risulta essere troppo lungo e troppo impegnato a spiegare.
Il problema, per tutti, è: come portare una materia sia pur sociologica e psicologica, e così via, che fa parte del nostro vivere quotidiano, come portarla, se possibile con afflati poetici, sulla scena teatrale, tramite il linguaggio e l’espressione teatrale? Mi pare di poter dire che la soluzione che ne deriva nel lavoro sia della Calamaro che dei suoi attori (che si vorrebbe fossero visti partecipi in teatro di un atto di vita autobiografica, vista l’uguaglianza dei nomi propri tra gli attori e i personaggi), si affidi alle indiscusse capacità di Silvio Orlando di variare sui registri comici, umoristici, elegiaci, tragici. Troppo esili gli altri personaggi, preoccupati della solitudine di Silvio, che, a rigor di logica, potrebbe risultare come la scelta opportuna di un “sociopatico” che vuol condurre una vita solitaria, e ritirata (quanti simili personaggi ci offre il teatro occidentale? Da Plauto a Molière, da Shakespeare a Goldoni, fino a Eduardo De Filippo!). Sia i figli che il fratello Roberto, che spesso alza la voce per difendere i suoi punti di vista (cosa teatralmente inefficace come sa un regista agli inizi delle sue esperienze sceniche), non riescono a convincere Silvio a lasciare alle spalle quella sua vita passiva, immobile e solitaria, mostrando anche atteggiamenti da estranei.
D’altra parte, i personaggi che compongono il nucleo familiare del protagonista son tutti presi dal loro piccolo e misero ego, e finiscono per ripetere, reiterare i loro pensieri, le loro querimonie, le loro invettive, come un meccanismo che gira a vuoto, e che non smuoverebbe di un centimetro l’arreso Silvio. Arreso a cosa? Non si capisce bene: alla vedovanza? All’assenza della moglie? Alla piccineria dei familiari? A un mood esistenziale di tipologia checoviana? O un po’ a tutto questo? Se si crede alla chiave di lettura psicologica e sociologica la vicenda doveva risolversi coerentemente girando nella toppa dell’uscio teatrale quelle stesse chiavi, per spalancare la visione verso una sia pur minima trasformazione, sia pure grazie all’esile barlume di luce che l’imbrunire ancora può offrire.
Si nota all’imbrunire. Solitudine da paese spopolato
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Silvio Orlando, Vincenzo Nemolato, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene Roberto Crea
costumi Ornella Campanale, Marina Campanale
luci Umile Vainieri.
Teatro Quirino, Roma, fino al 2 febbraio 2020.