Ciascun linguaggio artistico si trascina dietro una storia oltre a quella del suo soggetto: la propria. Il cinema, dalla nascita ad oggi, ha mutato aspetto molte volte prima di diventare ciò che conosciamo. Ha conosciuto un’identità che l’accomunava alla pittura impressionista, rappresentando scorci di vita, di realtà in movimento, e soltanto dopo vent’anni spiegò possibilità che erano riservate alla letteratura. Per quanto riguarda la forma, poi, prima priva di suoni e di colori, oggi sembra persino fuoriuscire illusionisticamente dallo schermo: alcuni film si offrono in 3D; e anche la fruizione amplia la sua gamma di possibilità, il cinema esce dalle sale, invade il piccolo schermo raggiungendo le case con la TV on demand. E il teatro? Se si considerano le rispettive età, il cinema è un’arte “giovane” per aver subito così importanti mutamenti, essendo nato solo alla fine del XIX secolo, mentre il teatro ha origine nell’Atene del V sec a.C.. Pur se forse con maggiore lentezza, però, anche il teatro ha seguito una sua evoluzione. Proprio pochi giorni fa è andato in scena a Roma «uno dei primi esperimenti» del suo tipo, che sembra non avere nulla da spartire con il teatro, se non il luogo del teatro stesso, in cui viene fruito e ambientato. E pensare che durante tutto il Novecento, in modi assai diversi, quest’arte provava ad affrancarsi dal suo spazio secolare, scendendo nelle strade, nelle cantine, nei garage, sui carrozzoni, per ritrovare una specificità dettata da una semplice compresenza, quella fra (almeno) un attore e uno spettatore, direbbe Grotowski. E invece, al Teatro Argot Studio di Roma – e subito dopo a Salerno per la stagione Mutaverso Teatro – è andato in scena uno spettacolo che ci ha dimostrato che in teatro si può rompere persino quel legame che pareva inscindibile: Segnale d’allarme – La mia battaglia VR scritto da Elio Germano e Chiara Lagani, il cui film in realtà virtuale è stato dal primo diretto insieme a Omar Rashid. Elio Germano lo ha anche interpretato, sì, ma in questo caso non dal vivo; era presente virtualmente, attraverso particolari visori per la realtà virtuale indossati dagli spettatori, in una differita che ha il sapore di cinema. Ma non lo chiameremmo cinema, come neppure lo chiameremmo uno spettacolo teatrale solo perché lo spettatore è seduto davanti a un palco (vuoto). Non è nostra intenzione soffermarci oltre su questo lavoro, che chi scrive non ha neppure visto, ma di cui ha sentito parlare da Elio Germano stesso, che ha presenziato all’incontro Il teatro nella realtà virtuale, di introduzione allo spettacolo, coordinato da Tiziano Panici il 30 gennaio presso l’Aula Levi – ex Vetrerie Sciarra dell’Università La Sapienza di Roma. Basti citarlo a esempio di come il teatro, dopo avere negli anni Ottanta integrato il video, stia sperimentando negli ultimi anni nuovi terreni d’indagine che spostano l’asse del suo baricentro verso “altro” da sé.
Abbiamo, invece, appena fatto in tempo ad andare a teatro a Milano, prima che il Coronavirus obbligasse la città a fermarsi da ogni punto di vista, compreso quello della programmazione teatrale. Per la stagione della Triennale Milano è andato in scena in prima italiana Sopro, un interessante spettacolo diretto dall’attore, autore e regista portoghese Tiago Rodrigues. Perché interessante? Perché questo lavoro è incentrato sull’utilità, l’importanza e la presenza di un membro in via di estinzione del teatro: il suggeritore, e ci riporta a comprendere meglio chi era, o almeno, a prefigurarci uno spettacolo esposto a rovescio, che situa il suggeritore in quella zona proibita del palcoscenico. Uno spettacolo sul suggeritore, dentro uno spettacolo con il suggeritore in scena: solo Tiago Rodrigues poteva pensarlo, un lavoro così. Stratificato, ironico, anche, se vogliamo, cervellotico e stralunato. D’altra parte, il tema della memoria, della “mancanza” di memoria, gli sta a cuore, se si tiene conto di By Heart, spettacolo pure andato in scena nei giorni precedenti alla Triennale di Milano, in cui era il pubblico stesso invitato sul palco a imparare a memoria un testo. Attorno alla figura del suggeritore, custode della memoria del teatro, Rodrigues, con sei attori, ci mostra il “rovescio” del medium al tempo in cui quell’elemento che ne rappresentava il cuore vitale, invisibile e pulsante, sembra aver perduto la sua necessità. La scena è una sorta di natura rovesciata. Rumori d’esterno, come di vento marittimo, avvolgono un interno dall’esterno artificiosamente ricreato, delimitato sulle tre pareti da tende, mentre qualche pianta in un vaso costella lo spazio agibile. Nel mezzo tra le due nature, «nel letto del fiume tra la realtà e la finzione» – citando lo spettacolo – lavora il suggeritore. Immaginiamo, però, come non è tanto difficile fare, che oggi il teatro sia in rovina. E che per questa crisi fosse impossibile pagare gli attori. Sul palco potrebbe parlare, mostrarsi, prestare la sua voce e anche il corpo allo sguardo degli spettatori, colui o colei che fino a quel momento aveva fatto proprio della sua ombra il suo successo: così, è la suggeritrice Cristina Vidal la protagonista di Sopro, ultima superstite della sua categoria professionale al Teatro Nacional D. Maria II a Lisbona, il teatro dove Rodrigues ricopre l’incarico di direttor artistico. «Il mio successo risiede nel fatto che nessuno si accorge che esisto: ricevere i complimenti dal pubblico per me è un fallimento», spiega Cristina, invitata dal regista, da copione, a “salvare” il teatro andando in scena come se fosse un’attrice. L’effetto è comico. La performance, con una efficace e inesauribile profondità di indagine, offre quindi una carrellata di situazioni tipiche che investirebbero un suggeritore, mostrandoci una tassonomia delle specie di attori. Lo fa proprio attraverso alcuni esempi estratti da grandi classici, come Tre sorelle di Čhecov e il Macbeth shakespeariano.
C’è l’attore smemorino e sordo, che fa produrre interventi del suggeritore che si odono fino all’ultima fila (ricordando un ipotetico critico che scriveva su un giornale «Complimenti alla suggeritrice! Che voce! Che dizione!»); quello ribelle, che fa ciò che gli pare e piace senza alcuna vergogna di cambiare il testo: guai, però, se poi viene assalito da un vuoto di memoria, sempre che non sdrammatizzi ammettendo di non ricordare le battute per risultare simpatico al pubblico, condizione in cui, difatti, l’attore gigionesco ricade quasi sempre. Passando attraverso la delicata soglia della meta-teatralità, con una scomposizione in senso brechtiano del testo che già avevamo avuto modo di seguire in António e Cleópatra dello stesso Tiago Rodrigues andato in scena a Short Theatre, in Sopro si alternano pezzi di solenne teatro alla vita reale, più immediata e autentica. E, tra gli uni e le altre, si fa spazio anche l’idea che una macchina complessa come quella del teatro per funzionare abbia bisogno di ingranaggi piccoli, ma preziosi: parafrasando una vecchia pubblicità, non di un pennello grande, ma di un grande pennello.