Sotterraneo, Wallace, “Overload”: l’unica occasione di Carlo Lei

Foto di Carolina Farina

Sono sette anni che Overload di Sotterraneo gira l’Italia, dopo aver vinto nel 2018 il premio Ubu come miglior spettacolo dell’anno. Difficile dunque dire qualcosa di nuovo rispetto alle parole che tanti spettatori e spettatrici hanno speso su di esso.
È un lavoro in cui la figura di un autore di cui si è fatto feticcio, quella di David Foster Wallace, smarca il rischio dell’imitazione fin dalle prime battute, grazie al distanziamento dell’ironia. Essa è molto di più, è resurrezione di un’identità ancor prima che culturale antropologica, di una disposizione all’analisi dell’interiorità e dei rapporti, all’errore come peregrinazione e fallimento, non come condanna ma come insegnamento alla distensione temporale (quella necessaria alla lettura e alla scrittura, per cominciare), alla sedimentazione nell’autoconsapevolezza.

Per arrivare a ciò, Overload (visto allo Spazio Diamante di Roma il 6 marzo scorso) deve per forza essere ciò di cui parla: una continua distrazione, un instancabile ricorso a qualcosa di completamente diverso. L’allettamento della mente all’essere intrattenuta (difficile non pensare a Infinite Jest) e la successiva assuefazione all’impossibilità della scelta si rispecchiano nell’impaginazione: un affastellarsi di contenuti ora intervallantesi a strettissimo giro, ora persino sovrapposti, in cui a ogni interruzione o diversione viene data piena dignità scenica di impatto visivo, di presenza. Si prenda ad esempio l’interruzione tennistica, in cui le due interpreti (Sara Bonaventura e Lorenza Guerrini) mimano un match, fingendo una prospettiva estrema nella profondità del palco: pochi minuti, anzi pochi secondi, che hanno però la dignità di una piccola costruzione drammaturgica, a partire dalle scelte dei costumi fino alla trama vera e propria dell’incontro.

Per tutta la prima sezione del lavoro il palco, pur rimanendo sostanzialmente frontale e ancorato alla figura di Wallace, anche quanto questi è soffocato da altro o addirittura spinto fuori scena, placcato da un giocatore di football americano, è continuamente modellato, stravolto, e le prospettive mutano, si accavallano, i personaggi si moltiplicano a decine, gli spazi allusi anche, mentre la presa di chi guarda sul materiale è sollevata, resa incapace di avvinghiarsi a qualcosa. Come ci accade oggi, ogni giorno, presi dallo scrolling o frustrati nel tentativo di scrivere un articolo, come questo.

Foto di Filipe Ferreira

Ma Overload non è uno studio sulla qualità distraenti delle nuove tecnologie. Esso scavalca senza nemmeno citarla la causa e si concentra direttamente sull’effetto, l’indebolimento della tenuta attentiva, la tendenza all’uso di un testo (nel senso di opera dotata di autonomia, quale che sia il medium in cui consiste) non come superficie da percorrere e dissodare palmo a palmo, ma come campo da saccheggiare, travolti via via da informazioni o attrattive più golose.

Ed è proprio qui il primo livello del riferimento al discorso Questa è l’acqua tenuto da David Foster Wallace per il conferimento delle lauree al Kenyon College il 21 maggio 2025: l’acqua inavvertita e dunque inconoscibile in cui i pesci nuotano. Ma cos’è l’acqua, se la metafora gira su di noi?

Come ricorderà chi l’ha visto, a una prima parte, composta da quel turbinare di eventi, in cui la presa attentiva è praticamente impossibile, costantemente sabotata, ridicolizzata anche solo nei suoi moventi, segue una seconda, in cui i cinque performer riassumono i loro veri nomi. In costumi neutri, neri, hanno smontato la scena e salgono in macchina per tornare a casa. Ognuno restituisce il copione di sé stesso, dichiarando i propri pensieri e le proprie battute, in un tempo che sopraggiunge dilatato, ora, in cui tutti i momenti più comuni di un semplice viaggio in macchina e di uno scambio tra persone che hanno una pratica di vita comune vengono passati per il vaglio della consapevolezza e di una strana forma volutamente ridondante di presenza.
Mentre l’auto degli attori sfreccia in autostrada e i suoi passeggeri si scavano un cantuccio nell’abitacolo per trascorrere le lunghe ore del viaggio, avviene, sempre con una spiazzante lentezza, qualcosa di imprevisto. Annunciato dal surreale, progressivo apparire del carico disperso, il ribaltamento di un tir pieno di polli vivi mette fine, una dopo l’altra, alle vite dei protagonisti, chi sbalzato dal veicolo senza controllo, chi schiacciato, chi affogato nello sprofondare dell’auto in un corso d’acqua.

Il tutto è seguito attimo dopo attimo attraverso la precisa ma inesorabile consapevolezza dei protagonisti. Ma che cos’è questa iper-presenza di sé persino in punto di morte, a quale mondo altro mira, rispetto all’incubo messo in scena nella prima parte di Overload, in cui la distrazione (e si potrebbe qui intendere il senso letterale, da dizionario, di “stato del pensiero rivolto altrove”) spoggia costantemente il soggetto pensante?

Bisogna nuovamente ricorrere al famoso discorso wallasiano. Le inscenate morti degli attori di Overload risuonano appunto col tema della dipartita, specificamente del suicidio, che nel discorso dell’autore americano torna più volte: «Non è certo un caso che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa» rileva Wallace, e quando ciò accade, continua, essi è come se fossero già morti da molto tempo.
La morte nella vita e, per così dire, la “morte nella testa” è ciò contro cui, in termini fermamente anti-moraleggianti, l’autore metteva in guardia il suo pubblico di neolaureati. Se si muore prima, se non si vive pienamente, specificava, è perché si è ipnotizzati da quell’«ininterrotto monologo» che avviene dentro la testa di ciascuno e lo isola dal resto del mondo, un monologo inteso come una espressione automatica del pensiero autogenerato da ciascuno di noi. La testa è chiusa in sé.

Foto di Alex Brenner

Ma il nostro, a venti vertiginosi anni di cambiamenti dal testo di Wallace, è un tempo in cui la difficoltà di aprirsi e rimanere aperti sul “vero” circostante non ha radice solamente nell’incapacità di uscire dai propri meccanismi automatici di stare al mondo, ma che contempla il paradosso per cui l’illusione dell’apertura attraverso la comunicazione con l’esterno è invece una ulteriore forma di “morte nella testa”.

Ed ecco che il piccolo, notissimo testo di Wallace, si rivela come guida fenomenologica (e morale, non moralistica) della scrittura di Overload. Con la stessa aerea leggerezza che soffia tra le parole del discorso del Kenyon College, Sotterraneo ci dice che se la vita ci scorre sotto senza che ne sentiamo realmente la presenza è soprattutto per le distrazioni, per il fatto di non essere mai davvero qui pur essendovi, per l’affogare in quel continuo stimolo delle informazioni a cui le tecnologie attuali ci hanno abituato a soggiacere.
Come Wallace suggerisce ai suoi freschi laureati di provare a non lasciarsi portar via («se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano»), Sotterraneo sembra dire a noi che non siamo obbligati a sottostare alle distrazioni e lo fa parlando in due modi diversi, nelle due parti che compongono il suo lavoro, della morte.

L’alternativa? Scriveva Wallace che certo, «vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile». Ma siamo disposti a rinunciare a quest’unica occasione?

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