Una delle caratteristiche che oggi sembra ridefinire il profilo di un processo artistico o della sua ipotesi di ricerca in ambito di live arts, e che coniuga le molte tangenziali linguistiche con un’evidenza prossimale, per certi versi esperibile in un tempo quotidiano non artefatto né cristallizzato nella forma, è forse quello di uno spazio di relazione tra performer e spettatore; qualcosa ch’è andato oltre la liturgia di una scena archetipale o antropologica, sicuramente da una un’altra parte rispetto alle azioni soggettivanti che hanno abusato di corpi e di deflagrazioni visive da tempo raccontate all’interno di un misticismo o di una retorica sostanzialmente “retrospettiva”. Un imperante mainstream, poi, ha occupato ogni alveo di indipendenza e di “sfasamento” concettuale, anche tra gli autori – giovani o meno – che si dichiarano resistenti alla fascinazione del gusto medio dove vige un autocontrollo rispettoso di composizioni e immaginari consumati. In questo, il teatro e la danza bien fait continuano a smarcarsi (o almeno così dichiarano di fare) dagli impegnativi prodromi delle rispettive tradizioni (anche del moderno) per poi, di fatto, ripercorrerne i tracciati e le intuizioni già ampliamente sondate e ripensate. In questo quadro non consolante, la narrazione tra performer e spettatore – e le sue derivazioni linguistiche – tocca nervi tutt’ora scoperti intorno a come e a cosa possano dirci in questo tempo contratto, quale verbalizzazione si sceglie, quale atto di “forza” si promuove nel non venire a patti col mercato. Questi sono i temi al centro della riflessione del Cross Festival di Verbania 2020, in una “Walk edition” quella di quest’anno che si snoda tra luglio, agosto e settembre con le sue residenze artistiche, i workshop e gli accadimenti scenici (o spettacoli) caratterizzati, appunto, da esperienze in quanto tali – diremmo – per entrambi gli interlocutori di questa aggiornata idea di uno spazio di creazione tra spettatore e performer, lì convocati nel tirare le fila di un vocabolario condiviso tra gesto e sguardo, tra azione e restituzione. È cambiata la prospettiva, ogni attraversamento tiene conto inevitabilmente del momento che contingenta e orienta lo stare assieme in era Covid-19, ci si avventura a prendere parte di una condizione data o che si va a ripensare a partire dalla modularità dei formati proposti, mentre il tempo sembra assumersi la responsabilità nondimeno di un termine felicemente precario, ovvero sbilanciato verso uno smarginamento da “festa”, una incursione nella sfera personale addirittura, dopo l’isolamento forzato di questi mesi da poco trascorsi. E riproporre come frammenti di un discorso amoroso (Roland Barthes docet) i segmenti di un percorso fatto di artisti e spettatori per ridisegnare una ritrovata umanità possibile, riscoprire il respiro e la cornice vitale di una esperienza nei luoghi pubblici e naturali o all’interno di palazzi storici, mostrare la fragilità dei corpi e la bellezza del gioco, della partecipazione derivativa dal clubbing, ci sembra trovi parole nuove nella progettualità di un festival dove si incrociano le produzioni contemporanee. In apertura il face-to-face tra Silvia Gribaudi e Salvo Lombardo funziona come chiave di volta per una lettura overside dell’intera porzione del festival di luglio, scontornata da luoghi comuni e da appellativi leggibili ad un solo livello. Nella medesima serata, come in un primo e secondo tempo della stessa, Gribaudi con Graces rimarca una attualizzazione del pensiero sul bello come categoria estetica (e percettiva) attraverso i rimandi al classicismo scultoreo e al mito, qui prontamente soppiantati da una leggerezza di grande livello capace di muovere al riso, al disincanto; Lombardo, dal canto suo, chiude con un’azione che reinventa l’estremità di un senso di comunità coinvolgendo lo spettatore al ballo collettivo e (ancora) alla percezione di sé con l’altro con Outdoor dance floor.
Così il Teatro Maggiore (un gioiello architettonico di recente costruzione) svela i suoi spazi e le potenzialità nella filiera internazionale dei teatri europei. Sono le memorie e i racconti degli abitanti dell’area rurale intorno a Verbania di cui si nutrono le Mappature emotive del duo exvUoto teatro (Andrea Dellai e Tommaso Franchin), alla scoperta di una natura addirittura estrema, prorompente, a caratterizzare un lavoro sulla soglia del disequilibrio emotivo che riflette nell’interlocutore di turno una personalissima configurazione di opera d’arte, quasi intima, e in questo modo un posizionamento sul mondo, sulla verità che il reale del mondo riesce (nonostante tutto) ancora a donare.
Era dal lontano 2000, in quel Sopralluogo n. 1 – Allontani lo sguardo del regista Fabrizio Arcuri al Palazzo Falconieri a Roma, che una costruzione artistica fatta di processi e camminamenti negli spazi (qui nella natura e nelle architetture di campagna, lì nella fantasmagoria barocca) non si faceva portatrice di un’esperienza nella quale l’opera è essa stessa l’azione e al contempo il suo disvelamento, e nella quale si è invitati ad “abitare”. Così, in Landing in Verbania – della coreografa Francesca Foscarini e dello scrittore e drammaturgo Cosimo Lopalco – l’esplorazione diventa reminiscenza, anamnesi, dono reciproco sì fra performer e spettatore, ma chiosato nella specifica cifra di un lascito, un precetto di senso tra l’attraversamento di oggi, in questo tempo, e le diverse anime che riemergono grazie all’azione nelle stanze di Villa Giulia di Pallanza e nei corridoi viari delle aree verdi della cittadina.
Ancora una gestazione nata in seno a workshop e interventi di cesellamenti mimetici, ancora un recupero di umori e ambienti da ripensare, ancora un’eco che arriva da lontano e che va a depositarsi come ulteriore linfa nello spazio vitale degli astanti. Molti altri artisti animeranno Cross Festival nelle sessioni dei prossimi mesi e che continueremo a seguire, tra gli altri il debutto del nuovo lavoro del coreografo Davide Valrosso impegnato a indagare l’invisibile dei corpi nella loro struggente scomposizione di segno del femminile con Love|Paradisi artificiali, e la ricerca di Irene Russolillo in quella sfera di testimonianza e manifestazione della presenza in seno alla comunità di riferimento con la quale la coreografa lavorerà col progetto Dov’è più profondo.