Sulla copertina del libretto di sala della prima rappresentazione scaligera di Sport, ballo in otto quadri di Luigi Manzotti con musica di Romualdo Marenco (46 repliche nella stagione 1896/’97) campeggia un ferro di cavallo. L’equitazione, a pochi mesi dalla prima edizione delle Olimpiadi moderne, è solo uno degli sport che vi compaiono, alcuni dei quali oggi non sarebbero nemmeno considerati tali. C’è l’alpinismo, il pattinaggio, il “gran prix” d’equitazione, appunto, il duello alla pistola, la regata, la caccia, il tiro a segno. In questi scenari entrano ed escono le vicende di una coppia di nobili, i marchesi Waldek, il giovane scapolo Renato di Frankeville e la ex ballerina brillante, priva di blasoni, Florence Bernier, che ricalca tutti gli stereotipi della bella “selvaggia”, primeggiante in ciascuno degli sport sopra elencati, elegantissima ma spigliata, maliarda ma pietosa verso la rivale, la Waldek, che vorrebbe sottrarle Renato, e indipendente al punto da rifiutare la profferta che lui le fa de «la sua mano, il suo nome, il suo titolo, il suo grado». Salvo poi, dopo che lui le assicura di aver abbandonato per lei tutto e tutti, autorizzarlo «a sperare ancora».
Eppure, in Sport con un rovesciamento che forse solo un’avvertita distanza riesce a rilevare, sembra essere lo sfondo a giocare il ruolo di primo piano, piuttosto che le trite vicende del triangolo amoroso, e così era stato pure nei due precedenti successi di Manzotti, Excelsior (1881) e Amor (1886).
È per l’appunto a questi falsi sfondi che il lavoro di Salvo Lombardo, sin dai tempi del suo Excelsior, ha posto attenzione, al teatro insomma come celebrazione di un’epoca di trionfi dell’Occidente, di ottimismo appena scomposto. Una fiducia cristallina nell’avvenire che oggi non manca di mostrare inquietanti incrinature, un’epoca rigida ma gioiosa verso le magnifiche sorti del nazionalismo, del capitalismo, dell’imperialismo italiani fin de siècle. Con il suo successivo Amor, Lombardo chiamava in causa anche il mito romano del popolo e della cultura eletti, che si circondano degli apparati del museo, dell’appropriazione del passato, del populismo. Ora, nel terzo capitolo de L’esemplare capovolto, Sport, appunto, in prima assoluta a MILANOoLTRE poco più di un mese fa e in scena anche al Teatro India, la reazione all’originale è di segno più incisivo, meno poggiato sull’ironia. Ciò che ne è esce non è solo una puntuale negazione del contenuto frivolo, dello sfondo festoso o dell’atmosfera brillante e sotterraneamente muscolare. Né si limita a rintuzzarne l’impianto rappresentativo, l’impaginazione per scene giustapposte (limite oltre il quale nessuna delle due riscritture precedenti si era spinta), e va anche oltre l’operazione che conduceva, rabbiosamente, Cancan di Fabritia D’Intino, sabotatrice implacabile del sensuale ballo parigino. Il lavoro di Lombardo si presenta caratterizzato da una matura, dolente sobrietà, con un peso specifico emotivo cospicuo, che non risponde quasi più al suo antecedente, ma che si fa paradigma tragico-coreografico indipendente, assoluto.
Una lunga pista bianca attraversa la sala B del Teatro India, delimitata nei lati brevi dai parallelepipedi di due panche, anch’esse bianche, inquadrata da una doppia fila di sagomatori e da due videoproiettori a pioggia, che veleranno di passaggi d’ombre il bianco e il grigio dello spazio scenico. Ai lati il pubblico, in un duplice ordine di sedie, disposte alla visione laterale del lavoro, teso dunque centralmente. Nulla in scena; i quattro performer (Chiara Ameglio, Jaskaran Anand, Fabritia D’Intino, Daria Greco) in tute ginniche tipo Adidas iniziano a occupare lo spazio, utilizzando la capriola come modulo più volte ripetuto. A quello altri due moduli, con variazioni più o meno consistenti, verranno adottati: dopo la capriola, appunto, il confronto agonistico della lotta con atterramento e la proiezione al suolo dell’avversario, eseguiti in sequenza l’uno rispetto all’altro in una progressione che non consente ritorni al precedente.
Se la capriola è gesto solitario, quasi comico di per sé, quando i performer volto a volto si confrontano, a coppie variabili, nelle prese, tastando ora un braccio, ora la nuca dell’avversario, prima di flettere i muscoli alla ricerca di un cedimento della parte avversa, quando gli sguardi cominciano a incontrarsi, la scena si accende improvvisamente e chi osserva si domanda se nella qualità di questo impreveduto contatto vi sia sensualità, sfida, odio o desiderio. Come poi le prese possano, in alcuni momenti, farsi abbracci e amplessi, come continuamente si trapassi dalle une agli altri, questo getta lo spettatore nello scivoloso baratro (e spinoso) dell’interpretazione.
Finché si giunge al punto in cui, verso il finale, alle prese e agli atterramenti subentrano le proiezioni, tecnica con la quale si slancia il corpo dell’avversario oltre la spalla, e lo si scaraventa al terreno. L’iniziale sorpresa, il tonfo della caduta non sono in alcun modo attutiti dai performer, né dalla superficie del pavimento, che anzi sembra amplificarli, renderli simili a uno sparo; quel boato si ripete ancora, sempre più frequente, fino a fare la sua comparsa svelato, riprodotto dalle casse audio nella sua vera natura di detonazione di arma da fuoco. Quella che sembrava una gragnuola di cadute diventa un assalto, una sparatoria, una qualche operazione di aperta violenza. Il volume delle esplosioni, non meno che quello delle cadute, ora trasformatesi in disperate percosse a mani aperte della pista del palco, aggredisce lo spettatore, lo squassa – eppure il precipitargli addosso di questo evento sensorialmente aggressivo travolge senza cancellare il rovello dell’ambiguità erotismo/violenza, gioco/aggressione, convenzione/sopraffazione che era stato fino ad allora allestito, anzi ne rende il filo ancora più tagliente, gli consente di incidere più profondamente. La disperazione è travolgente – e sospesa.
Ciò che stupisce e atterrisce di questo lavoro è proprio qui, nella capacità della scrittura di Lombardo di mantenere quel pugno di elementi in scena (non più di tre moduli, con il quarto, il disperato picchiare sul palco, che ad altri sarebbero bastati tutt’al più per un breve atto performativo) sospesi sul baratro in cui si dibattono interrogativi storici, drammi politici, choc personali e collettivi, passando per la sensorialità aggredita e l’ambiguità che non si scioglie.
La sbiancata luce di una palestra elabora o evoca pulsioni profonde? Cosa si dicono due corpi che si toccano, anche per amarsi? Sono sufficienti le regole condivise per dire di essersi liberati dalla brama di sopraffazione? Perché basta ancora così poco per atterrirci, uno scoppio improvviso, un corpo che sembra patire?
Ecco: l’ostinazione di tenere insieme le due chiavi, quella dell’ambiguità e quella del dolore, quella del pensiero sottile e del corpo straziato è la conquista di Sport.
Ed ecco perché l’ultimo lavoro di Salvo Lombardo dialoga assai meno con il suo modello manzottiano, anzi ne liquida quasi spazientito i moventi. Perché è davvero ora di dare voce autonoma, libera, alle tragedie nostre, una volta concluse le lunghe misurazioni che hanno posto il presente sul metro del passato.
Sport
di Salvo Lombardo
nell’ambito della trilogia L’esemplare capovolto
con Chiara Ameglio, Jaskaran Anand, Daria Greco, Fabritia D’Intino
disegno luci, spazio e direzione tecnica Maria Elena Fusacchia e Alessio Troya
disegno del suono Fabrizio Alviti
styling Ettore Lombardi
consulenza teorica Alessandro Tollari
produzione Chiasma
coproduzione FESTIVAL MILANoLTRE, Fattoria Vittadini
con il contributo di MIC – Ministero della Cultura e Regione Lazio
con il sostegno di Lavanderia a Vapore, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Scenario Pubblico / Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la Danza, C.L.A.P.Spettacolo dal vivo, CapoTrave / Kilowatt, Ostudio
in collaborazione con Università degli Studi di Torino | Dipartimento di Studi Umanistici.
Teatro India, Roma, 11 e 12 novembre 2023.