Sullo sguardo e l’anima delle città: Ferracchiati meglio di Sorrentino di Katia Ippaso

Foto di Tommaso Le Pera

Ci è capitato di vedere, a distanza di poche ore, due opere che, in forme diverse, si concentrano sui dispositivi della visione e sull’essenza spirituale di alcune città italiane la cui bellezza travolge e ferisce. Il primo è un film di cui sembra essere arrivata notizia anche al Polo Nord: parliamo di Parthenope, che molti di noi stanno recuperando su Netflix. Il secondo è uno spettacolo teatrale, La morte a Venezia, scritto e diretto da Liv Ferracchiati, di cui invece poco si sa.

Parthenope

Di che cosa parli il film di Sorrentino non è chiaro, il che non sarebbe di per sé un problema. Non è certo per lo scioglimento della trama che abbiamo amato senza riserve tutti i film di David Lynch, il più disarmato e sincero narratore dell’inconscio che il cinema contemporaneo ci abbia donato. Non sapendo quello che dicono (che Federico li perdoni), molti paragonano le opere di Sorrentino a quelle di Fellini. D’altro canto, “felliniano” è un aggettivo insignificante diventato, da tempo, strumento tombale. Come indica il titolo, il film sembrerebbe parlare della città di Napoli, che è usata in realtà come pretesto per seguire la vita di Parthenope, una specie di semidea nata negli anni Cinquanta che sopravvive a decenni di degrado e brutture, salvandosi alla fine la vita grazie allo studio (peccato che non la vediamo mai studiare, ma solo esibirsi come modella involontaria).

Per tre quarti del tempo, la macchina da presa resta incollata al corpo (indiscutibilmente bello) di Parthenope (Celeste Dalla Porta), che, nata nel mare, agisce come un aracnide, calamitando nella sua tela chiunque posi lo sguardo su di lei, senza risparmiare il proprio fratello che, a causa di quell’amore incestuoso, finirà con l’uccidersi. Il film si dispiega come un gigantesco spot pubblicitario che poteva anche concludersi in dieci minuti e che invece si sfalda in ben due ore e 17 minuti, incollando una immagine artefatta dopo l’altra, con esibita strafottenza nei confronti dello spettatore. Sorrentino e i suoi accoliti dicono che lui vuole parlare di Napoli e della morte. Ma quello che emerge, oltre ad un serie appiccicaticcia di citazioni colte, è uno sguardo senile (da tempo, quello sguardo è senile, almeno dai tempi di Youth, opera però più risolta) che declina il desiderio nelle forme più misere, stereotipate, frutto di un approccio superficiale alla vita e al mondo. Sorrentino si sente, da sempre, superiore rispetto ai personaggi. E questo Fellini non lo faceva mai: lui, Federico, amava le sue creature.

La morte a Venezia

E veniamo allo spettacolo di Ferracchiati che, dichiaratamente, chiama in campo il film di Visconti del 1971, archetipo di una passione mortale che si consuma solo attraverso le traiettorie dello sguardo. Il drammaturgo, attore e regista teatrale, da tempo impegnato in prima persona in una battaglia estetica/etica che parte da ferite e questioni identitarie, isola un dettaglio presente già nel racconto di Thomas Mann (del 1912) quando, nelle pagine finali, lo scrittore tedesco narra la morte di Gustav von Aschenbach, al lido di Venezia: «…Regnava un’atmosfera ostile. Sull’ampia distesa d’acqua bassa che separava la spiaggia dal primo, lungo banco di sabbia, correvano, avanti e indietro, brividi che l’arricciavano. Un’aria autunnale, di sopravvivenza, sembrava restare su quel luogo di piacere già così animato di colori, ora quasi abbandonato, la cui sabbia non veniva più ripulita. Un apparecchio fotografico, apparentemente senza padrone, si drizzava in cima al suo treppiedi sull’orlo del mare, e il panno nero sopra disteso svolazzava schioccando nel vento rinfrescato».

Pensando al film di Visconti, tutti ricordiamo quello che accade: Tadzio che gioca violentemente con i suoi amici, Tadzio che si immerge nell’acqua e, dopo aver contemplato l’orizzonte, si gira per guardare verso la spiaggia. Aschenbach che, come obbedendo a un richiamo, fa per alzarsi per seguire il biondo, etereo ragazzo. Aschenbach che muore. Ma difficilmente potremo ricordarci dell’apparecchio fotografico abbandonato. Invece è proprio lì, con il panno nero che copre l’obiettivo. Oggetto inanimato, ma non privo di significato.

Foto di Tommaso Le Pera

Liv Ferracchiati capisce quel significato nascosto. E decide di fare di quell’apparecchio il centro della propria scena. Dal momento in cui l’oggetto diventa vivo, abitato da Liv- Gustav, comincia la storia. La storia di uno scrittore che è, come Mann e Visconti, ossessionato dal tema dello sguardo e dalle strategie manicomiali del desiderio. Questo giovane uomo disseziona i primi piani del suo Tadzio, la bravissima danzatrice e performer Alice Raffaelli, mentre la voce fuori campo (dello stesso Liv) si chiede: «E tu? Che fai adesso? Sorridi? A nessuno devi sorridere così. Mai, a nessuno. Perché anche a me, come a Gustav Von Aschenbach, capita di svegliarmi di notte che mi manca il respiro». Nelle intenzioni di Ferracchiati e del suo dramaturg (Michele De Vita Conti), Tadzio rappresenta «chiunque sia d’ispirazione, la bellezza che sa di essere guardata e si trasforma incessantemente». Mentre Gustav von Aschenbach è «chiunque viva la vita come un pugno che si stringe su se stesso e mai come un palmo di mano rilassato e molle». In questo piccolo, nudo, kammerspiel, è presente anche la città di Venezia, sotto forma metonimica: tre teli a strisce verticali di colore bianco e indaco, che ricordano le tende di uno stabilimento balneare: un segno preciso, che richiama l’atmosfera del film di Visconti. Voce, corpo, inquadratura, suono, tutto lavora sull’esattezza emotiva, permettendo così allo spettatore di fare il proprio viaggio interiore, di rivivere tutte quelle volte che abbiamo guardato o siamo stati guardati in un certo modo, tutte quelle volte che la parola è rimasta muta, schiacciata dall’intrico dei pensieri, dalle domande riferite a quello che non si può dire.

Ad un certo punto Ferracchiati entra in campo con il corpo della sua stessa voce, rinunciando al voice over. Si avvicina alla zona del fuoco. Dimostra di aver paura. Preferisce mangiare una fragola piuttosto che toccare Tadzio, parlare a Tadzio, che dal canto suo pensa e parla una lingua straniera (il polacco, come suggerisce già Thomas Mann). La morte di Aschenbach (per colera) non viene performata, ma detta. Questo non la rende meno morte. Non c’è niente di senile in questa morte. Ferracchiati azzera non solo il genere (rivolgendosi a Tadzio indifferentemente con il pronome femminile o maschile) ma anche l’età. Attorno al dispositivo dello sguardo si dispiega una riflessione sul senso della vita, il desiderio e la morte. Vecchiaia e giovinezza sono disancorate dall’età, lasciate libere di agganciare le anime prima che i corpi.

Foto di Tommaso Le Pera

Ferracchiati riesce ad evadere dal perimetro dell’autofiction, pur parlando in prima persona, perché la materia riesce a farsi universale. A differenza di Sorrentino, che sembra parlare sempre e soltanto di se stesso, di come lui “vede” (ma sarebbe meglio dire “non” vede) Napoli, anche se non usa direttamente la prima persona, nascondendosi dietro il mito del fabbricatore di sogni. Insomma, tanto ridondante, compiaciuto, esteticamente senile, è Parthenope, quanto è vitale, sincero, disarmato, giovane e maturo insieme, il gesto artistico di Ferracchiati, mentre scompone e ricompone, con respiro calmo, La morte a Venezia.

Spettacolo visto al Teatro India di Roma dove è stato in scena dal 5 al 9 febbraio 2025.

Prossima replica al Piccolo di Milano, Teatro Studio Melato, dal 15 al 25 maggio 2025.