Ringrazio innanzitutto Danila Blasi (Direttrice artistica) e Giordano Novielli (Direttore organizzativo) di Tendance per avermi dedicato il loro tempo.
Il progetto di Tendance mi sta particolarmente a cuore perché anima luoghi a me cari. Sono nata a Latina e vissuta per diciotto anni a Prossedi (LT), un paesino di poco più di mille anime ubicato in collina sui Monti Lepini. Prossedi dista circa quaranta chilometri da Latina e poco più di quindici chilometri da Frosinone. Ricordo molto bene le difficoltà di un’adolescente che avrebbe avuto il desiderio, la necessità, di spostarsi anche soltanto per andare al cinema e al teatro. Spesso, tuttavia, non era possibile sia per le distanze sia per la mancanza di collegamenti rapidi con gli autobus sia, ancora, perché a parte qualche film in poche sale di teatro e di danza non si parlava proprio. È difficile ancora oggi, figuriamoci trenta anni fa.
Sapere, però, che quel territorio rivive, che può avere e dare alle comunità che lo abitano l’opportunità di condividere cultura e spazi per “stare insieme” mi dà una gioia sincera. Una gioia che si sposa anche e soprattutto alla qualità delle proposte artistiche di Tendance.
Qual è per voi il significato di Tendance, il festival di danza contemporanea, giunto alla XIII edizione che si svolge nella piana pontina e che ha il merito di coinvolgere città come Latina, Pontinia, Sezze?
Danila Blasi: Tendance, oltre al suo significato più ovvio e immediato, “tendenza”, prende il suo nome dal verbo inglese to tendance che significa “prendersi cura di”, “badare a”, “occuparsi di”, “attendere a”. E la cura è quello da cui ci siamo mossi: occuparci del luogo e delle persone che sono la linfa vitale del nostro festival. Ogni volta che si mette in piedi un festival quello che accade è che si crea una piccola comunità, in parte stanziale e in parte nomade, che ogni anno si ritrova, si ricostituisce, si riconosce. Per noi, che abbiamo scelto Latina e le città della sua provincia per costruire questa comunità è stato da subito chiaro che avremmo dovuto farlo con tutta la cura che richiedeva l’idea di innestare un festival di danza contemporanea in un territorio in cui questo tipo di evento mancava completamente. Quindi con l’attenzione e l’ascolto dei bisogni di chi vive quotidianamente quel territorio.
Giordano Novielli: Un lungo percorso di cure, di relazione, di ascolto e di modulazione. Per me è impossibile dividere l’esperienza personale da quella professionale, e probabilmente non avrebbe nemmeno senso. Per sua natura, un festival crea un tempo-luogo (o diversi tempi-luoghi) basato sui rapporti e su una sorta di trasformazione delle energie. Alcuni luoghi, collaborazioni, obiettivi si sono modificati nel corso delle varie edizioni, parallelamente ad una consapevolezza maggiore rispetto a bisogni e proposte. Il senso è anche che, sicuramente, non si organizza un festival “da soli” ma in relazione ad una comunità della quale, anche solo temporaneamente, si fa parte.
Cosa vuol dire creare e immaginare un festival per le comunità di quel territorio, dal momento che Tendance è diventato negli anni un forte strumento di coesione sociale oltre che un progetto di grande valore artistico?
D.B.: Innanzitutto significa evitare di calare dall’alto le proprie visioni artistiche, senza costruire una reale rete di ascolto con le persone e con le realtà che vivono e animano il capoluogo pontino. Significa immaginare occasioni di incontro con i cittadini, teoriche e pratiche. Significa coinvolgere la comunità nei processi creativi, anche attraverso il nostro laboratorio permanente di danza di comunità. Ma significa anche riempire i luoghi della città, il cui teatro comunale ha riaperto una sola delle sue sale solo quest’anno dopo lunghissimi anni di chiusura, di performance. Portare la danza nelle piazze, nei musei, in ogni luogo possibile. Quello che abbiamo cercato di fare è stato l’andare oltre il mero concetto di programmazione e di concentrarci sul progetto nel suo insieme. Abbiamo scoperto quindi moltissime realtà che ci sono affini e che lavorano da anni a Latina, magari occupandosi di discipline “sorelle”, come il teatro contemporaneo, l’arte contemporanea, i fumetti, la fotografia. E questo ha chiaramente influenzato le nostre scelte artistiche, che sono diventate parte integrante di tutto il progetto.
G.N.: Credo che in tutte le fasi della realizzazione del festival, dalla progettazione fino alla realizzazione pratica del più piccolo dettaglio, si debba immaginare e valorizzare l’interazione con le realtà che compongono, di fatto, il territorio stesso. Avrebbe poco senso, e soprattutto poco respiro, proporre semplicemente degli spettacoli, per quanto artisticamente validi possano essere. Diverso diventa lo sguardo, il coinvolgimento e anche l’affezione se viene coltivata, la sensazione di poter “prender parte”. Non mi riferisco solo ai progetti di danza di comunità, ormai un pilastro di ogni edizione, ma anche del rapporto con la gestione degli spazi teatrali e non, con le realtà di formazione, con chi nel territorio opera da anni. Un aspetto interessante è che attraverso queste relazioni la danza dialoga con altre forme espressive, dal teatro alle arti visuali, e sicuramente questo incontro si rispecchia nelle scelte di programmazione.
Il sottotitolo di Tendance è quest’anno “trepidanza”: ovvero, come scrivete, essere “in alcuni momenti più timorosi ed in altri più speranzosi. Trepidanti e pronti”. Come si coniugano l’attesa della sospensione e l’azione sia in rapporto ai lavori che proponete sia alla relazione con il pubblico?
D.B.: Devo confessare che ci ha divertito giocare con la parola “trepidanza”, che esprime sì il concetto della trepidazione, ma che contiene la parola danza. Ma al di là del giochino linguistico è vero che noi sentiamo nella danza contemporanea una vibrazione, una sospensione, che esprime perfettamente questo stato incerto che contiene speranza e timore allo stesso tempo. Gli spettacoli di questa edizione hanno un fortissimo rapporto con la realtà, che da diversi punti di vista è una realtà piuttosto inquietante e spaventosa, ma non hanno sicuramente uno sguardo apocalittico. Guardano alla realtà dubbiosi, curiosi e piuttosto speranzosi, come a volte solo la danza riesce a fare. Rispetto al pubblico, sappiamo che c’è un nutrito gruppo di spettatori che ci è fedele negli anni e che aspetta l’arrivo di Tendance. E a noi piace immaginare che questa attesa sia piena di “trepidanza”.
G.N.: L’attesa e, in qualche modo, l’anticipazione aggiungono valore alle nostre esperienze. Il desiderio che si tramuta in azione è un elemento implicito nel momento in cui si sceglie di esprimersi attraverso la danza. Come ogni espressione dal vivo, c’è un certo grado di incertezza, di imprevedibilità. A livello di organizzazione, sicuramente questa attivazione aiuta a mantenersi il più possibile pronti di fronte all’imprevisto. Ma “trepidanza” per me è soprattutto il momento nel quale le luci si abbassano, l’attimo sospeso prima dello scambio tra artista e pubblico, nel quale la risultante di tutto il lavoro di preparazione prende, letteralmente, corpo.
«Il teatro è nella verità del momento presente, nell’assoluto senso di convinzione che può apparire solo quando un’unione lega interprete e pubblico», questo dichiarava Brook in La porta aperta (1993). Oggi, cosa si può fare, di che cosa abbiamo bisogno, che cosa possiamo proporre con il nostro “esserci” a chi ci ascolta, a chi partecipa a un evento performativo, a quel “paesaggio del corpo” che contiene in sé un corpo scenico portatore di valenze e interferenze culturali?
D.B.: Quello che io personalmente amo dell’atto teatrale è proprio quella relazione tra chi agisce e chi guarda e che è possibile solo con un atto di presenza. Che è insostituibile. Che presuppone un impegno, come ogni relazione degna di questo nome. Che vuole, che pretende un hic et nunc in un presente che invece è sempre più virtuale e on demand. Il teatro, quale che sia la sua forma, che sia prosa, danza o opera lirica, chiede la tua presenza. Ti chiede lo sforzo di alzarti dalla sedia, dal divano, da dovunque tu sia e di uscire di casa per essere parte di un evento che è possibile solo con la presenza dei corpi. Ti chiede di essere parte di una ritualità collettiva che inizia per l’artista da quando inizi a progettare una performance, per lo spettatore quando decide di andare a vedere uno spettacolo e per chi cura un festival quando inizia a incastrare i mille tasselli che lo comporranno; tasselli fatti di luoghi, spazi, persone. Di artisti e di spettatori. Di schede tecniche e di contratti, di quinte e di stanze d’albergo. E alla fine di spettacoli, condivisi tra performer e pubblico. Come sono poi condivisi il cibo, il vino e le risate.
G.N.: Penso che una delle cose più importanti che in questo momento l’esperienza teatrale possa insegnarci sia, appunto, lo “stare”. Veniamo sempre più sospinti verso l’essere continuamente raggiungibili e reattivi, mentre per un evento performativo dobbiamo necessariamente rimanere nel qui ed ora. La dimensione corporea porta con sé narrazioni stratificate, esperite, necessariamente in relazione con l’altro oltre le barriere linguistiche. Fondamentale è anche riconoscere che il teatro è un’arte collettiva che richiede sia la collaborazione di molte professionalità che la presenza del pubblico, creando di fatto una sorta di comunità che vive non solo nel momento della performance ma in tutta la sua preparazione ed in quello che lascia.
Per tutte le info su Tendance (15-28 maggio 2023) si veda il sito: