Ken Loach non è solo un regista e un artista di grande spessore -ma anche un punto di riferimento storico-culturale – al quale poter ricorrere nei momenti in cui si abbiano dubbi su come possa essere il futuro dell’Occidente, se vogliamo avere veramente una possibilità di salvarlo da un progressivo decadimento (e senza ritorno) di qualsiasi valore di fratellanza e di solidarietà. The Old Oak, titolo emblematico del suo ultimo capolavoro, è un pub molto tradizionale, in cui si radunano tutti gli abitanti del quartiere. Il luogo di aggregazione assume inevitabilmente nella storia la valenza simbolica di una forza resistente al capitalismo più selvaggio, fatto di prodotti mainstream e social network. In questa reazione al “nuovo” che distrugge l’essere umano nella sua forma più nobile, si inseriscono anche dei nuovi poveri, provenienti come i protagonisti di questa storia, da un paese devastato dalla guerra: la Siria.
La bellezza di The Old Oak, come i pluripremiati Il vento che accarezza l’erba e Io, Daniel Blake consiste nella maestria di Loach di raccontare la realtà più dura, mettendo lo spettatore alla prova di fronte alle storie narrate. Il regista inglese non ha mai smesso di lottare per il proletariato e di esprimere le sue idee anticapitaliste, argomentandole sempre con coerenza senza scivolare in facili intellettualismi che potessero porre un distacco con il pubblico. Lo stile dell’opera è armonico grazie a una regia che, anche in questo film, tiene conto del “naturalismo” degli attori per la maggior parte non professionisti e selezionati negli anni da Loach.
All’età di 87 anni, il regista nel presentare The Old Oak anche in molte sale italiane ha intrattenuto spettatori entusiasti che lo hanno ascoltato con sincera ammirazione. L’ultima fatica di Loach, infatti, offre molti spunti di riflessione: sui nuovi poveri (come quelli del sobborgo anglosassone del film), sulla loro ghettizzazione e sulle facili propagande nazionaliste. Il film non ha la presunzione di giudicare. Mostra, al contrario, la realtà; ci insegna che non è una colpa vivere nella povertà e che il popolo inglese (in questo caso, ma in fondo tutti i popoli) se saprà essere unito potrà vincere le divisioni e ottenere un miglioramento delle condizioni lavorative e di vita. Così come, attraverso l’immagine della cattedrale – di iconica bellezza – ci insegna la convivenza di ogni religione (tra cui quella musulmana, oggetto spesso di discriminazione).
I protagonisti del film, T Jay e Yara, rappresentano il passato e il presente/futuro. Il primo, anziano signore in pensione, è il figlio di un minatore, mentre la giovane donna è una profuga siriana – fuggita dalla guerra – la quale trova nell’uomo un importante punto di riferimento e di confronto. Yara conosce Y Jay grazie alla sua passione per la fotografia e al desiderio di poter catturare frammenti della loro difficile condizione. L’arte (nel caso specifico la fotografia) è il mezzo espressivo, ineguagliabile, che può testimoniare e informare la comunità: Yara è un personaggio chiave del film. Una proiezione sostanziale del pensiero di Loach.
Dall’incontro tra due solitudini inizia il cambiamento: il quartiere dell’ex cittadina mineraria riscopre il valore della convivenza, il civile ri-connettersi con gli altri, in virtù della resistenza che si fa nella Vecchia Quercia. Due differenti collettività pronte, malgrado gli ostacoli e i pregiudizi, a diventare una sola comunità in nome della giustizia sociale che possa mettere fine alla sofferenza e ai soprusi contro i dolori e le contraddizioni di un’epoca, malata, segnata spesso dall’indifferenza e dalla noncuranza nei confronti degli altri.
Unirsi è l’unica strada. Questo è il messaggio di Ken Loach – come ha affermato alla fine delle proiezioni in diverse sale cinematografiche romane – per sperare in un Mondo migliore.