The Prisoner di Peter Brook: una favola antropologica che ci permette di guardarci allo specchio di Katia Ippaso

Queste sono brevi note che seguono la visione di The Prisoner, l’ultimo spettacolo di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne presentato all’interno di Romaeuropa Festival, e che sono orientate a definire limiti e margini della ricezione di un evento d’arte che fa sempre più fatica a sottrarsi alla brutalità del consumo spettacolare.

La ricezione

Non erano pochi gli spettatori che, a fine spettacolo, hanno fatto sapere subito, a voce alta, le loro impressioni del momento: «Si vede che questo spettacolo gliel’ha fatto la sua assistente». «E poi come recitavano gli attori?». Al tempo stesso, era impossibile non leggere commozione e stordimento nei volti di tanti altri che se ne andavano pensosi sulla loro strada. È naturale che un evento artistico divida. Ma da cosa nasce il desiderio di esprimere subito un giudizio così esacerbato? Probabilmente quello che porta molti esseri umani a partecipare agli eventi più importanti della stagione teatrale non è il desiderio di fare esperienza diretta di questi stessi eventi, ma di poter dire “c’eravamo anche noi”, che non manca insomma neanche una figurina all’album delle presenze mondane. Ora, affermare che la recitazione degli attori di Brook non è all’altezza di quest’arte è come cancellare mezzo secolo di storia del teatro in un solo colpo, ostinarsi a non riconoscere la differenza tra una frase pienamente detta all’altro e una battuta che al massimo risuona bene dentro il proprio guscio vuoto. Quanto alle parole su Marie-Hélène Estienne, la storica collaboratrice del regista inglese (naturalizzato francese), vanno ad alimentare un automatismo culturale che ci impedisce di riconoscere alle artiste donne la possibilità di conquistare il nome. Eppure è proprio questo che Brook ha fortemente voluto e ottenuto: «A un certo punto, dopo anni di lavoro quasi telepatico tra noi, ho voluto che il lavoro di Marie-Hélène fosse riconosciuto alla stessa stregua del mio, che fossimo co-autori e registi dello spettacolo». Poi c’è la questione della fama in sé. A un uomo come Brook, che tutta la sua vita ha fatto della ricerca antropologica la sua ragione di vita, non è mai fregato un granché di essere messo dentro una teca da museo. Definirlo un “mostro sacro” o farlo a pezzi, alla fine è la stessa opaca operazione che annulla le differenze. «Non mi permetterei mai di chiedere a uno spettatore che domande si è posto guardando The Prisoner. È una questione privata». È così che la vede lui.

La lezione

Teniamoci allora un momento stretti a questa “questione privata”. E sforziamoci di prendere The Prisoner come uno specchio che rifrange parti di noi che non vogliamo vedere, tendenze della nostra psiche e pulsioni cieche che ci vietano l’accesso alle cose dell’anima. Come tutte le opere d’arte, anche questo spettacolo andrebbe analizzato in se stesso, e non in comparazione con gli altri lavori di Brook. È vero che in tutta la carriera di questo maestro della scena, ci sono fili interni che si intrecciano, ma sarebbe un’operazione miope non considerarlo nella sua nudità, nella sua essenza. The Prisoner ha una lunga gestazione e va a piantarsi in un momento remoto della biografia di Brook, quando in Afghanistan si trovò di fronte al mistero di un essere umano che viveva di fronte a una prigione. Quel ricordo venne, in un secondo momento, a collegarsi con un’altra esperienza fatta in Australia, quando Brook assistette ai rituali di espulsione e reintegrazione di un uomo che si era macchiato di un crimine, presso una comunità stabile aborigena. Le due immagini si sono avvicinate in modo tale da diventare le fonti primarie di un’unica storia, che sul palcoscenico viene contemporaneamente narrata e vissuta. C’è una giovane donna nei panni di Brook esploratore. È lei che fa le domande che il regista non ebbe il coraggio di fare allora. È lei a condurci per mano, lungo il perimetro di questa spericolata, cristallina investigazione, che scioglie in fabula le considerazioni di Levi-Strauss sulle leggi esogamiche e sulla nascita della civiltà, fondata sulla proibizione dell’incesto.

Il prigioniero del titolo, Mavuso, ha ucciso suo padre perché l’ha trovato a letto con Nadia, sua sorella. Non l’ha fatto per vendicare l’onore della giovane donna, ma perché anche lui è ossessionato da Nadia. Ma non si può amare la propria sorella. Ed è a questo punto che entra in scena lo zio Ezechiele, portatore di un pensiero magico. Invece di far crepare Mavuso dentro il carcere, conduce il nipote su una collina desertica, nel punto esatto da cui potrà guardare tutti i giorni e tutte le notti la gigantesca prigione dentro la quale, come parricida, sarebbe finito. Lo lascia lì, senza cibo, a confrontarsi con le tenebre della sua mente a cui nessuna punizione corporale, nessuna tortura, nessuna cella, nessuna sbarra, avrebbero potuto porre fine. Di fronte a questa nuova drammatica libertà (libertà di vivere o di morire), il ragazzo dovrà dimostrare di essere pronto, non a espiare la sua colpa, ma a «riparare». Passa il tempo. Come unico amico, una guardia del carcere che viene a parlargli di teste decapitate e sevizie. Per mangiare, dovrà rendere appetibili i topolini selvatici, le bacche. Finché, un giorno, Mavuso sentirà che è giunto alla fine del proprio cammino spirituale. E se ne va. «Non c’era nessuna prigione, e nessun prigioniero» dice la narratrice-esploratrice che è tornata sulla collina a cercare l’enigmatico Prisoner. La lezione, ha ragione Brook, è privata. Ed è difficile, alla fine, non essere grati a questo saggio uomo di 93 anni e alla sua compagna d’arte, per averci portato, alla fine di questo prezioso camminamento, a guardare dentro le tenebre. Là dove, senza paura di perdere la vita e la coscienza, liberi dalle leggi bestiali del sistema carcerario, tutti possiamo trovare la limpida luce di un nuovo giorno.

 

The Prisoner

testo e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne

luci Philippe Vialatte

scene David Violi, Alice François

con Hiran Abeysekera, Hayley Carmichael, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan

foto Simon Annand.

Romaeuropa Festival 2018, Teatro Vittoria, fino al 20 ottobre.