Uno dei miei maggiori motivi d’imbarazzo quando si parla di cinema è quello di preferire Ben Affleck come attore che come regista, che sia nei suoi film o in quelli degli altri poco importa. Così, da molto tempo ho abbandonato le discussioni in proposito, e ora ci torno su chiamata e a una cauta distanza, come l’ex cestista prodigio Jack Cunningham (Affleck) torna a fare l’allenatore in Tornare a Vincere (The Way Back). Come già la mia carriera di disturbatore di salotti cinematografici, anche quella precedente di Cunningham fu breve, se è vero per lui ciò che valeva per Jerry Maguire in un film sportivo d’altri tempi: «la sua sfida comincia adesso».
Si potrebbe datare questo nuovo inizio all’ottobre del 2018, quando Affleck, da poco divorziato da Jennifer Garner, usciva dall’ennesimo rehab e arrivava sul set per fondersi del tutto col personaggio. Operaio alcolizzato che ha mandato a monte il suo matrimonio, Jack Cunningham viene convinto da Padre Devine ad essere il nuovo coach della squadra di Bishop Hayes, il liceo dove il nostro era stato giocatore dell’anno nel ’93-’94, l’ultima volta che la scuola aveva raggiunto i play-off. La scommessa sarà ora quella di riportare il team alla vittoria, vincendo al contempo una serie di partite contro i propri avversari più temibili: la dipendenza in agguato, la frustrazione di un’ex-moglie che ha cominciato a vedere un altro, i fantasmi di un figlio morto di cancro.
Se è difficile stabilire i confini tra Affleck e il ruolo che interpreta, è altrettanto impegnativo dire se i match dei Bishop Hayes non siano una lotta interna di Cunningham. Dopo la proposta di tornare in campo (seppure ai bordi), Jack prova e riprova un discorso per non accettare, mettendo in scena la telefonata con Padre Devine mentre mette le birre nel freezer. La sua meticolosità nello scegliere il da farsi, il suo combattimento interno, tutto ha dell’ossessivo: passare le lattine dal frigo al congelatore, una alla volta, per berle ghiacciate mentre ripete il copione con cui rifiuterà. Tramortirsi sul divano come ogni sera, poi la doccia di sempre per togliere via il torpore, finché non diventa molto più facile dire sì al prete. È una decisione impossibile, quella di tornare a vincere, e bisogna anestetizzarsi per prenderla, così da non prenderla davvero. Si noti come Jack accetti l’incarico non per un senso di catartica redenzione, ma come se fosse un’altra cosa da cui dipendere: ci si addormenta e ubriaca dentro. Instaura col campo da basket un rapporto morboso prima ancora di entrarvi, come se già non potesse fare a meno di stare in quel luogo che pure aveva da tempo abbandonato. Uno dei momenti più riusciti del film è il passaggio dall’ufficio, dove si stava scolando le solite lattine, alla palestra per la prima partita: un cambio di set immediato, che non ci aspettiamo, credendo Cunningham in casa, e che invece simboleggia questo corridoio diretto fra la sua mente assuefatta e il gioco da portare avanti, con tutte le similitudini, le ambiguità e i contrasti che ci sono tra i due piani.
Ma questo rapporto assimilante non comporta una semplice simmetria. Proprio nel momento in cui la partita decisiva viene finalmente vinta, una terribile notizia fa precipitare l’allenatore in una sbornia che gli costerà il posto, e le prospettive di un immacolato riscatto personale, lasciando lo spettatore con l’amaro in bocca. Come mai al successo sul campo non corrisponde quello nella vita? Nell’essere dipendente dalla nuova situazione come dall’alcol, Jack non ci fa vedere niente di nuovo: c’è sempre lui, gigante imbolsito, che prova a farcela, muove piccoli passi, e infine fallisce. Si alza, fa la doccia, va al lavoro e poi all’eterno bar. Ottiene anche dei successi, ma si ha l’impressione che non ci sia una soluzione di continuità tra la meccanicità di mettere e togliere birre dal freezer e la sua nuova routine. Le cose possono andare meglio, ma l’orologio fa sempre tic-toc, finché questa sorta di twelve-step program per la sobrietà che è diventata la sua vita assomiglia grottescamente ai passi che servono per la prossima sbronza. E questo perché la convinzione di avere il controllo della situazione è ciò che lo fa cadere inesorabilmente nello stesso loop.
Ma il secondo e l’ultimo passo nel programma che Affleck stesso ha adottato per uscire dall’alcolismo recitano così: riconoscere un’autorità superiore che possa guidarti fuori dalla dipendenza, e infine aiutare qualcuno a tua volta. Il circolo padre-figlio, il vecchio schema a due. La vittoria in campo non appartiene infatti a Jack Cunningham, ma alla squadra, a quei ragazzi che ha portato sulla cresta dell’onda aiutandoli a spolverare le loro incertezze. Appartiene a Brandon, che Jack elegge come nuovo capitano e non a caso incoraggia subito a imparare a farsi sentire, ad alzare la voce con i propri compagni, ad essere il capo per mettersi in moto e chiudere il cerchio, diventando la loro guida per guidare se stesso. Ai ragazzi viene insegnato non tanto un nuovo set di tecniche particolari per arrivare al titolo, quanto una postura, un atteggiamento, un modo di essere. «Non importa vincere o perdere, importa essere più tosti dell’avversario». Sentire la forza del proprio corpo, non avere paura di fare o ricevere fallo, sono alcune delle «piccole cose che fanno il totale», come Jack ripete continuamente. Ma sono gli step della squadra ad essere decisivi, non i suoi.
Jack consiglia al padre di Brandon di andare a vedere le partite del figlio, anche se il fatto che giochi non corrisponde ai desideri del genitore, ex-cestista disilluso. È un conflitto speculare a quello che ebbe Jack col suo vecchio, che al contrario riconosceva il figlio solo in quanto incarnava le proprie ambizioni per la pallacanestro, spingendolo così ad abbandonare la carriera per dispetto. Ma al di sotto delle due situazioni gioca il medesimo dramma del riconoscimento, e la scommessa più alta è riuscire ad accettare la volontà del figlio per quella che è, non per come si vorrebbe che fosse. Per questo Jack deve fare un passo indietro, deve perdere, per rimettere in chiaro la voce dei figli, incluso di quello che ha perso, che da parte sua «avrebbe voluto» che il padre si prendesse cura di sé e tornasse a un rapporto sano con la famiglia. Ma sarà anche il figlio, il ragazzo che è in Jack a vincere, in quanto egli saprà finalmente fare canestro dal centrocampo dei propri desideri.
Ben Affleck, che si è tanto identificato con questo ruolo, torna ancora una volta a fare il mentore che è sempre stato, da quando in Will Hunting – Genio ribelle spronava l’amico Matt Damon a usare le proprie potenzialità, per uscire dallo «schifo» di South Boston al quale invece lui si sapeva condannato. Sembra di rivederlo adesso, un quarto di secolo dopo, il volto glabro, malinconico ma soddisfatto, perché il “fratellino” se n’è finalmente andato. Possedeva già la saggezza di ricambiare un dono che gli sarebbe stato fatto dal Bruce Willis di Armageddon, che compie al suo posto il sacrificio estremo per salvare il mondo. O quella che gli avrebbe permesso di crescere il figlio del suo più caro amico Josh Hartnett in Pearl Harbor. Nel secondo episodio di The Last Dance, nuova serie di documentari Netflix sul basket, abbiamo sentito Scottie Pippen venire definito come «Robin, dove Michael Jordan è Batman». Questo sa fare Affleck, che ha dovuto rinunciare a dirigere e interpretare il suo Batman per i problemi di alcolismo: sa lasciar vivere il Robin che è in lui, il Robin che è in noi. Ma si noti che in The Way Back questo succede contro lo svolgimento del film, che risulta meno riuscito del Warrior dello stesso Gavin O’Connor perché incarna meno le emozioni dei protagonisti nello sport (il tempo di gioco è piuttosto ridotto), non può farlo fino alla catarsi dello scontro finale, proprio perché questa catarsi è attraversata dal paradosso della rinuncia, e Affleck è protagonista drammatico in quanto è mentore a bordo campo, e addirittura viene alla fine cacciato da esso. Un film meno riuscito per un’operazione meta-attoriale coi fiocchi. Ve lo dicevo che a recitare vince sempre.