This is “Adolescence”: smarrita e tragica, la nostra di Anna Maria Sorbo

Courtesy of Netflix

Parafrasando (ad usum Delphini: sia chiaro, e perdonateci) il titolo di un ben noto volume, non sempre la TV è cattiva maestra e talvolta nel palinsesto fin troppo variegato – specie per qualità e non tanto per generi e formati – delle piattaforme di streaming on demand, capita di imbattersi in un prodotto più che apprezzabile perché ha qualcosa da dire e per come lo dice. Succede con Adolescence, miniserie britannica che senza neanche contare su grossi anticipi promozionali ha fatto rapidamente il pieno di ottimi riscontri di pubblico e critica, posizionandosi al primo posto tra le serie più viste su Netflix in Italia. Probabilmente anzi, quando questo articolo verrà pubblicato, Adolescence sarà già avviluppata nelle spire del virale, abbondantemente spoilerata, dissezionata nelle sue componenti alla stregua di un numero scomposto in fattori primi. Ecco dunque giusto qualche riflessione.

Al centro della storia è il brutale accoltellamento a morte di una ragazza, Katie, per il quale viene accusato il tredicenne Jamie Miller. I due frequentano la stessa scuola, sono pressoché coetanei, e Jamie – viso d’angelo su un corpo ancora infantile – non ha affatto l’aspetto di un criminale. Come è possibile che abbia commesso un atto così efferato? Tanto più che il presunto assassino, mentre viene tratto in arresto e subito dopo portato alla centrale di polizia, perquisito, interrogato, appare altrettanto sconvolto dei suoi familiari – il padre Eddie, la madre Manda, la sorella poco più grande Lisa. E nega e giura di non aver fatto nulla di sbagliato.

Courtesy of Netflix

Prende così via un racconto raccapricciante, scandito in quattro episodi, che messa da parte la classica investigazione sull’identità del colpevole già nel primo – gli inquirenti hanno in mano un video che inchioda Jamie nell’istante in cui inferisce sulla compagna dopo averla seguita – evolve dal poliziesco al drama, al thriller psicologico e alla denuncia sociale. La sensazione è di essere precitati in un incubo, il medesimo in cui vengono gettati i Miller con la rocambolesca irruzione di agenti armati fino ai denti dentro casa, appena trascorsa l’alba. Tredici mesi dopo, nel giorno del cinquantesimo compleanno di Eddie che fa da cornice al quarto e ultimo episodio, sarà chiaro – a loro e a noi – che da quell’incubo non è dato di risvegliarsi, ma soltanto di conviverci, o provare a farlo, molto faticosamente.

A differenza di altre serie che si prefiggono di mostrare senza filtri l’età per antonomasia più travagliata dell’esistenza umana ma offrono appigli allo spettatore per intravedere ragioni e concepire risposte (un esempio è la svedese Quicksand, del 2019), Adolescence regge il peso della “normalità”. Qui non ci sono ragazzi disturbati, che abusano di droghe o alcol, non padri insensibili tantomeno violenti le cui colpe ricadono sui figli. Ma comuni adolescenti d’oggi, ossessionati dal bisogno d’approvazione e dalla paura del rifiuto in un mondo pervaso dagli effetti manipolatori di una comunicazione che rimbalza attraverso gli smartphone e i social, si amplifica nella sua portata e tracima irreparabilmente, producendo visioni erronee, cariche di pregiudizi, e innescando pericolose distorsioni dal reale, anche dal reale delle proprie azioni.

Jamie si ritiene – e a suo modo lo è, senza per questo giustificarlo – una vittima, bullizzato in rete proprio da colei alla quale ha finito insensatamente per togliere la vita, eppure continuerà a lungo a professarsi innocente prima di decidere in vista del processo di ribaltare le sue dichiarazioni. Ma quanta consapevolezza ha, davvero, del gesto compiuto? E, rispetto a tale fragilità affettiva, a volte assoluta mancanza di empatia, che sembra caratterizzare un’intera generazione, che ruolo giocano gli adulti? I genitori sono in grado di relazionarsi autenticamente con i loro figli, gli insegnanti con gli studenti che hanno affidati, e così via? Tutti siamo parte in causa.

Courtesy of Netflix

Temi e interrogativi complessi e di urgente attualità, il che giustifica ampiamente l’enorme impatto suscitato dalla serie creata dall’attore Stephen Graham (l’intenso e commovente padre di Jamie, Eddie) insieme allo sceneggiatore e drammaturgo Jack Thorne (This is England e Queste oscure materie) e diretta da Philip Barantini.

Anche se non è tratta tout court da una storia vera, Adolescence ne ha tutta la potenza. E qui veniamo all’altro elemento che ha affascinato le platee e che sebbene pertenga a questioni più squisitamente tecniche diventa decisivo per imprimere alla narrazione quel connotato innegabile di immediatezza e sincerità. Ogni episodio infatti è girato come un unico lunghissimo piano sequenza, senza stacchi o tagli, con la telecamera che tanto dall’interno dei set quanto negli esterni, segue in tempo reale, pedina e scruta i protagonisti. Scelta oltremodo impegnativa che investe scrittura, interpretazione e regia, e che ha comportato un notevole lavoro di preparazione e prove costanti per selezionare alla fine la ripresa migliore.

Cast di altissimo livello: di Graham si è detto, con lui tra gli altri Erin Doherty (la psicologa Briony Ariston incaricata di esaminare Jamie) e Ashley Walters (l’ispettore capo Luke Bascombe), e – in una performance straordinaria per un debutto – Owen Cooper/Jamie.

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