« (…)Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare».
(K.Kavafis)
Per descrivere la vita non esiste immagine metaforica più potente e completa del viaggio. Ce lo hanno insegnato Omero, Dante, Verne, Bouvier e Melville. Esistono viaggi di rinascita, di quella rinascita che avviene ogni giorno in cui siamo capaci, credo, di lasciare andare cose, case, affetti senza cattiveria alcuna, se non con tutto l’amore che abbiamo in primis verso noi stessi. Staccare, recidere per fare decantare emozioni, malumori, dissapori o semplicemente lasciare che nuovi germogli trovino spazio nel terreno. Per rinascere bisogna avere il coraggio di morire, di cambiare pelle, di lasciar andare il passato avendo ben chiaro l’obiettivo a cui si vuole andare incontro.
«Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante», scriveva il poeta greco Konstantinos Kavafis. In questo modo siamo stati catapultati nella settima edizione del Festival Trasparenze dal titolo Muovere Utopie. Numerosi Virgilio/volontari del festival ci hanno accompagnato con grazia e rispetto per ogni luogo in cui si svolgevano gli spettacoli, trainati soltanto dalla grande voglia di collaborare a un unico miracolo: il teatro, che ancora oggi mi appare nuovo e inspiegabile e continuamente variabile come onde di un mare infinito. Ho vissuto due giorni (quelli del 4 e del 5 maggio) come se fossero due anni intensi, in balìa di un approccio immediatamente familiare costruito in maniera esemplare dai “padri” dell’evento: Stefano Tè, Salvatore Sofia e Giulio Sonno. Il 4 mattina arrivo in area festival. Tempo di posare il bagaglio e subito vengo catapultata in un primo spettacolo Un habitants. Per fare spazio a noi di Caterina Moroni nel cimitero di San Cataldo.
Entro piena di pregiudizi: lo spazio è quello di un cimitero, triste, cupo. Ho, come gli altri miei compagni, un fiore in mano, una mappa e delle cuffie collegate a un piccolo lettore mp3 che si accende non appena entriamo. Camminiamo, affidandoci lentamente alla voce guida e seguiamo ciascuno la propria mappa. Piano piano quel luogo inizia a regalare conforto, pace, protezione. Mi spoglio di qualsiasi “preconcetto” iniziale, sorrido e ritorno curiosa al punto da sentirmi libera. Giungo dalla defunta illustratami sulla mappa: Beatrice è il suo nome. Sì, uso il presente perché è lei che immediatamente mi permette di continuare a prendermi cura della mia vita, paradossalmente, anche se il suo elettrocardiogramma è piatto anche se non può controbattere a nessuna mia parola. C’è un annaffiatoio: devo contribuire anche io nel prendermi cura dei suoi nuovi compagni di vita, dei fiori messi accanto a Lei, e, dopo, prendo una coperta verde, posizionata lì al suo fianco e insieme guardiamo nello stesso punto, verso il cielo, con due vissuti diversi, ma nello stesso istante. La voce mi invita a ballare. Lo ammetto: all’inizio l’idea di ballare in un cimitero mi imbarazza. E non poco. Poi, però, capisco che è solo vita che continua e qualche passo l’ho fatto al punto da sentirmi più libera. Un ragazzo con il rastrello mi viene a prendere, è giunta l’ora, lo capisco e saluto Beatrice lasciandole quel fiore. Ci ricorderemo credo e, magari tra la folla del cielo, ci saluteremo, un domani.
Rieccomi insieme agli altri. Siamo fermi sotto i portici del cimitero. La voce nelle cuffie recita una poesia di T. S. Eliot. Scivolano a terra delle arance fino a quando la voce si materializza nel corpo di una donna (la stessa Caterina Moroni). Può essere la mia Beatrice che è venuta a salutarmi, penso. A suon di musica, piano piano ci saluta e indietreggia, sempre di più, sempre di più fino a svanire. Ecco che sale il vuoto, il senso di abbandono e la consapevolezza che «Sì, c’è la morte in questa impresa della caccia, l’indicibilmente fulminea, caotica spedizione di un uomo nell’Eternità». (Moby Dick)
Capisco, dunque, che con questo spettacolo ha inizio il senso del nostro cammino verso Moby Dick. L’equipaggio lo stiamo costruendo insieme, in maniera naturale, senza chiedere il permesso, diretti dagli occhi vigili di Stefano Tè, Salvatore Sofia e Giulio Sonno. Il termine “insieme” diventa il leitmotiv di un nostro spettacolo che non possiede canovacci né palchi né sovrastrutture. Soltanto la pura voglia di confrontarci in nome del teatro e di un’umanità da costruire per sentirci nuovi. Il nostro flusso prevale e inizia ad agitarsi sempre di più come onde all’unisono, un insieme di tante particelle d’acqua che oramai non si staccano più. Area di respiro. Noi, spettatori attivi dell’intero Festival, veniamo preparati a divenire un equipaggio che si consolida sempre di più, riscaldandoci in una tempesta preannunciata da condizioni climatiche ma alla quale non diamo più di tanto peso perché trascinati dall’emozione dello stare “insieme” e in questo insieme riconoscerci. Incontriamo Giulio Sonno che ha curato l’adattamento drammaturgico del Moby Dick e ne introduce i temi e la genesi. Specifica la complessità del libro: «difficile, lungo, pieno di digressioni scientifiche, biologiche, teologiche e filosofiche». Prima del celeberrimo incipit Chiamatemi Ismaele (Call me Ishmael, nella versione originale), c’è un intero capitolo del romanzo in cui sono raccolte decine di citazioni sulle balene, riferimenti dalla Bibbia a Shakespeare, dal Paradiso perduto ovviamente, al Leviathan di Hobbes, da Edmund Burke a Thomas Jefferson, fino ai canti marinareschi. Sonno ha provato ad asciugare il tutto, a riportare la drammaturgia cogliendo principalmente “la ricerca della sete della conoscenza e di vendetta, del rapporto tra bene e male, della ferocia e forza devastante della natura e dell’uomo”. Sempre di più mi tartassa la mente Kavafis «(…)Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola» nella sua poesia Itaca e le gesta eroiche di Ulisse nel suo viaggio. Niente, alla fine, è cambiato al giorno d’oggi. L’uomo continua a voler sconfiggere i portenti della natura nella totale utopia (tema del Festival) delle proprie forze. Sonno ci prepara anche a quello che sarà lo spettacolo, alla sua complessità prima fra tutte l’allestimento della nave Pequod, a dimensione naturale, e a un costante e quotidiano esercizio fisico, mentale e di spirito attoriale. Sonno ci ha avvisati, è vero, ma i nostri occhi vedranno fino che punto l’uomo può arrivare.
Ore 20:00. Ci sediamo nello spazio aperto EstateOff. Mi viene in mente il teatro di piazza nella cultura teatrale siciliana, quella del Cunto dell’Ottocento che avveniva o nei pressi del maasenu (il magazzino) – spesso situato vicino alla Cala a Palermo, antico porto arabo, perché i cantastorie avevano una certa predilezione per i siti nei pressi delle antiche porte, luoghi di passaggio obbligato per il loro pubblico abituale fatto, in prevalenza, da marinai, scaricatori e venditori ambulanti – oppure nel cortile del palazzo (vanedda) con corredo di sedie e panche per uditori. Il teatro in piazza era di tutti, atto alla fascinazione, alla distrazione necessaria per il fruitore, e per decantare gesta di eroi e antieroi in cui rispecchiarsi. Ecco: la tradizione continua e avanza il carro di 8 tonnellate, 13 metri di altezza, trainato da uomini, i detenuti del Carcere di Modena. Sopra la lignea costruzione, ci sono 20 artisti annunciati da 80 bambini che indossano mantelle gialle (il richiamo va immediatamente a Greta, la giovanissima attivista svedese nota per le sue manifestazioni regolari tenute davanti al Riksdag di Stoccolma con lo slogan “Skolstrejk för Klimatet” – Sciopero della scuola per il clima – e alle sue battaglie a difesa dello sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico).
Lo spettacolo ha inizio e penetra nell’animo umano, senza chiedere permesso, a suon di tamburi che sembrano bucarle quelle botti in scena; di movimenti misti a balli convulsi, alle arti marziali cinesi come il Tai Chi Chuan dove l’uomo deve continuare a difendersi, sempre. Sono pirati che non trovano tregua in un mare in tempesta cappeggiati da Achab. Il Capitano che ha “peccato” per un delirio di onnipotenza nell’aver voluto affrontare la balena bianca la quale gli mozza la gamba tra le fauci e s’immerge nelle profondità del mare. In seguito a quell’incidente, che gli è costato quasi la vita, Achab si fa costruire da un falegname una gamba artificiale, utilizzando però una mascella di capodoglio invece del solito legno. È in scena già monco e si comporta come un eroe tragico e, come in un dramma faustiano, trascende la propria condizione deciso a perseguire il suo scopo fino all’estremo, condannando se stesso e i suoi marinai all’annichilimento della ragione e poi alla morte. Lo spettacolo entra sempre di più nello spettatore che quasi non riesce a prendere fiato, facendogli respirare le atmosfere grotoskiane, quelle circensi, quelle delle danze del Kathakali e, ancora, dell’Opera di Pechino. Rileggo in un attimo Pitrè in Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano: «Testa braccia gambe tutto deve prendere parte al racconto; la mimica essendo parte essenziale del lavoro del narratore». Dunque: laddove c’è testo, c’è coordinamento gestuale e non solo. «L’attore deve saper fare tutto», dichiarerà Francesca Figini, una delle attrici della compagnia. E così sarà: innalzeranno non solo le torri di vedetta della nave, ma anche le costole, la testa e la pinna della balena fino a ammainarla come la “vincente”, facendola roteare lentamente mentre delle luci blu la illuminano dal basso verso l’alto. Alla fine usciranno da sotto la nave i richiedenti asilo che collaborano con il Teatro dei Venti. Anche questa è una scena di forte impatto emotivo. I loro occhi ci fissano. Nelle tasche hanno soltanto la sabbia di una terra che hanno lasciato. Un pensiero mi sfiora nuovamente: non chiudete i porti.
«Che cos’è mai, quale cosa senza nome, imperscrutabile e ultraterrena è mai; quale signore e padrone nascosto e ingannatore, quale tiranno spietato mi comanda, perché contro tutti gli affetti e i desideri umani, io debba continuare a sospingere, ad agitarmi, a menare gomitate senza posa, accingendomi temerario a ciò che nel mio cuore, vero, naturale, non ho mai osato nemmeno di osare? » (Moby Dick)
Si esce dallo spettacolo un po’ diversi, cambiati, provati e ci cerchiamo in questo viaggio che, abbiamo capito, stiamo facendo da poche ore, ma che sembrano tante. È stata una sfida voluta fin dall’inizio da Stefano Tè e condivisa con un collettivo di persone. E allora ho sempre più la conferma che sono gli uomini che fanno i miracoli con la testardaggine, con l’andare contro ogni “no”, ogni avversità. Lo conferma il documentario di Raffaele Manco sulla genesi dello spettacolo (iniziato dal 2015) proiettato il giorno dopo in un pomeriggio di bufera, di freddo e neve, appunto, un po’ come da canovaccio di un Moby Dick qualsiasi. Anche Manco ha colpito i nostri animi: intervista tutti coloro i quali hanno reso possibile la progettualità del sogno iniziale di Stefano Tè. «Il progetto era talmente ambizioso che era quasi irrealizzabile», dichiara Massimo Zanelli, il progettista e costruttore del carro-palco e degli apparati sceno-tecnici. Manco non fa emergere soltanto il lavoro degli artisti, dei tecnici, ma la tenacia che ha l’uomo, un po’ come Achab il quale, nonostante tutte le avversità, prova a realizzare i propri sogni e qui, nel suggestivo contesto di Trasparenze Festival, ci riesce. L’imprevisto è autore stesso della RESISTENZA che ha unito ancora di più una collettività nel nome di un unico credo: il Teatro, sviluppando una potente energia cosmica.
E allora ecco il miracolo di questo viaggio. Si torna a casa con un quaderno ricco, un bagaglio di esperienze, foto, risate, confronti e con il cuore gonfio. Ma soprattutto con una speranza che diventa certezza: la volontà di unire persone con il fine nobile di fare teatro per educare gli animi a non arrendersi. MAI.
Trasparenze Festival VII Edizione, Muovere utopie, Modena, Castelfranco Emilia, Gombola (frazione di Polinago), dal 2 al 5 maggio 2019.
16 spettacoli e 2 concerti, 8 laboratori per il territorio, 12 luoghi di attività,2 spettacoli in Carcere, a Castelfranco Emilia e Modena,
3 residenze artistiche del progetto Cantieri, 22 tra artisti e compagnie,
il progetto aGite Contemporanee a cura della Rete Teatrale Aretina,
il debutto di Moby Dick del Teatro dei Venti (sabato 4 maggio),
una collaborazione con Periferico Festival,
Trasparenze portami via, il Festival arriva in Appennino per creare nuove connessioni con il territorio (domenica 5 maggio)
Direzione artistica Stefano Tè con la consulenza di Giulio Sonno.
Un progetto ideato dal Teatro dei Venti e dalla Konsulta, organizzato in collaborazione con ATER – Circuito Regionale Multidisciplinare, Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, Teatro Ebasko, con il contributo del Comune di Modena, della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e il patrocinio del Comune di Polinago.
Con Roberto Abbiati, Avatāra, Simona Bertozzi, Nicola Borghesi / Kepler 452, Collettivo Amigdala, Collettivo Hospites, Cremaschi / Francabandera / Zanoli, Sara De Santis / Emanuel Andel (Austria), Michela Lucenti / Balletto Civile, Flexus, Roberto Latini / Fortebraccio Teatro, Danio Manfredini, Ermanna Montanari, Caterina Moroni, Naatangué Théatre (Senegal), Open Program of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Simone Pacini / fattiditeatro, Quotidiana.com, Teatro Akropolis, Teatro Dei Venti, Teatro Ebasko, TeatrInGestAzione, Zambra Mora.