Scrivere e mettere in scena, parlare di oggi e ripercorrere la storia, interrogare il passato per decifrare i gangli cogenti delle sfide che la modernità ci pone: Dario Muratore, regista e drammaturgo palermitano, dà vita, in Tripolis, da lui scritto e interpretato, pubblicato meritoriamente da Torri del Vento Edizioni, nella collana “Le primule”, dedicata al teatro e diretta da Luigi Maria Rausa, ad una storia che – manzonianamente – unisce particolare e universale. Il libro prende le mosse da una storia personale dell’autore, quella della nonna paterna MariaScalia che ha passato la sua infanzia nella Libia occupata dagli italiani.
Il pretesto narrativo immagina che sia il nipote (l’autore stesso) a svegliare la nonna da un sonno obliante: è arrivato il momento in cui vuole sapere tutto, capire tutto e lei deve raccontargli tutto.
Deve infatti svolgere un compito scolastico indagando sull’occupazione italiana in Libia.
Fare i conti con la memoria, una memoria selettiva, quella che riguarda il passato coloniale, spesso vittima di rimozione storica, omissioni, silenzi, revisionismo; spezzare il diaframma di silenzio e giungere ad una presa di coscienza delle responsabilità storiche del colonialismo italiano, ribaltando l’invenzione di un colonialismo circondato da un’aura di innocenza in cui non si tiene conto dei crimini commessi, come i “campi di concentramento MADE in ITALY”; rovesciare la rappresentazione dell’italiano come portatore di civiltà̀, collegato al falso mito degli italiani brava gente: questo è il focus della narrazione che, attraverso il racconto di nonna Maria, ricostruisce la storia libica dal periodo fascista, alla rivoluzione del leader libico Gheddafi del 1969, fino alla cacciata degli italiani, nel 1970.
Del resto, il rapporto con l’alterità africana, fatto di discriminazione sopraffattoria, aggressività, bombe, violenze, sfruttamento e stragi che hanno segnato l’esperienza coloniale italiana, costituiscono pagine non ancora integrate nella storia nazionale del paese; rimosse, o apertamente negate, in nome di un mito, radicato nell’immaginario collettivo, che rivendica l’atipicità della vicenda coloniale italiana come quella di un colonialismo bonario, quasi umano.
Il crinale lungo cui si dipana il racconto è proprio il punto di vista di Maria, il suo sguardo, privo di pregiudizio, la sua prospettiva, mista di candore ingenuo, di innocente testimonianza.
Suo il modo di raccontare e di costruire la storia che appartiene alla storia della tradizione siciliana, come scrive nella prefazione Stefano Randisi: «Una tradizione antica che parte dal Cunto e che trasforma la soggettività del narratore in un coinvolgimento personale dello spettatore, anche a prescindere dall’argomento trattato, grazie alla complicità che instaura parola dopo parola, attraverso una tecnica di seduzione e intimità che consente di sentirsi parte di quelle storia». Un procedere cantilenante, ritmico, anaforico, fatto di immagini e catene di immagini, di metafore come quella del cous cous: i singoli chicchi non possono crescere se non si “incocciano” l’uno con l’altro. I chicchi sono come i cristiani, gli esseri umani, che non possono crescere se non si è capaci di incontrare l’altro perdendo i confini di se stessi.
Centrale nella storia, è la figura di Mahal, il fatello arabo, che servo era e servo rimane, che però verrà adottato dal padre come un figlio vero, fino al suo allontanamento, fino all’ipotesi di un suo tradimento.
Del resto la nonna lo dice, eravamo 11 fratelli, come gli apostoli meno Giuda, il dodicesimo fratello, Mahal non era più né arabo, né italiano, a metà tra due mondi rimane estraneo a entrambi.
L’unico momento in cui Mahal viene riconosciuto come fratello è nel momento del pericolo, quando un cobra minaccia Antonietta, la più arrogante tra le sorelle, che viene salvata proprio da lui. Il male-serpente e un salvatore-Mahal, con la scena che si scioglie in un abbraccio: di fronte ad un pericolo comune l’uomo riconosce la propria similarità che abbatte ogni confine.
E di elementi biblici è percorsa l’intera narrazione, come scrive nella postfazione – Vincenza Di Vita – soprattutto nel momento finale della fuga.
La storia trasforma gli aggressori-italiani in vittime, e le vittime-arabe in aggressori: un totale rovesciamento del punto di vista.
Del resto, parafrasando Georg Simmel, lo studioso che maggiormente ha indagato la forma sociologica dello straniero, quest’ultimo non è altri che lo stesso individuo che potremmo essere noi in circostanze mutate. L’uomo è un essere confinario che non ha confini, ma attraverso l’alterità dello straniero sente i propri i confini che ne delimitano l’identità e la incorniciano, per così dire.
Nel libro c’è un riferimento al film Lo straniero di Visconti, ma più che il film è il romanzo di Camus che può gettare una luce sulla lettura di questo libro. Del resto anche Camus visse in questa condizione di francese che vive tra arabi, quindi straniero sia per gli arabi che per i francesi. Ma l’essere stranieri è una condizione intrinseca dell’uomo.
«Il bene e il male è difficile che stiano unilateralmente da una sola parte» – così scrive a proposito del grande autore del ‘900 Roberto Saviano – «e le divisioni manichee in bianco e nero, buono e cattivo, giusto e ingiusto, vittima e carnefice tanto semplici da digerire, spesso sono altrettanto false e non spiegano in alcun modo la complessità della vita».
Dario Muratore, Tripolis, Torri del Vento Edizioni, Palermo, 2019, pp. 152, euro 11,40.