Alcuni lo chiamano consenso preconcetto e forse hanno ragione. Fatto sta che ci sono artisti a cui siamo debitori: di emozioni, conoscenze, scelte importanti, svolte decisive nel nostro percorso tortuoso e bizzarro di testimoni di teatro. Testimoni critici, per brevità chiamati critici.
Tra questi artisti io custodisco la coppia Vetrano Randisi, Enzo e Stefano, rispettivamente. Devo loro, soprattutto, il mio amore risvegliato per il teatro pirandelliano, svecchiato, asciugato, innervato di vita propria. Se penso ai Pirandello di questi ultimi anni mi viene in mente l’Agostino Toti di Pensaci Giacomino in cui Enzo Vetrano pestava i piedi e stringeva i pugni e quel tributo commosso a La classe morta di Kantor che chiudeva I giganti della montagna.
Ma ci sono due lavori ancora più recenti, che li hanno visti soli, strumenti accordatissimi che vibravano tra le partiture di quel poeta della scena che fu Franco Scaldati: Ombre folli, nel quale parole forti e anche scabrose venivano sublimate da una litania delicatissima, che rimbalzava dall’uno all’altro, e prima ancora, Totò e Vicé, in cui due creature sospese tra la terra e il cielo, tra l’acquiescenza del clochard e la fragilità del cristallo, si nominavano l’un l’altro per assicurarsi di esistere.
Uscii da quello spettacolo, credo visto al Teatro India, dicendo tra me e me che Gogo e Didi stavano aspettando proprio loro. Che prima o poi Vetrano e Randisi si sarebbero trovati ad aspettare Godot.
Loro due, derelitti sotto l’albero, quel salice piangente senza foglie che non ha più lacrime da piangere, derelitto più di loro, che aspettano e aspettano e il resto lo sappiamo. Magari anche lo scarpone, quello enorme, abbandonato in primo piano, per farci vedere quanto è lungo il loro piede.
È repertorio iconografico, immaginario condiviso, aspettative fondate su quel principio per cui “tutti i limoni sono gialli finché non trovo un limone nero”. Eccolo. Questo Aspettando Godot diretto dal regista greco Theodoros Terzopoulos, che ha firmato anche scene, luci e costumi, è il limone nero.
Il che significa due cose: lo spettacolo ha creato nei fedeli beckettiani un certo spiazzamento; lo spettacolo sarà ricordato come momento di svolta nella messinscena di un classico incrollabile del teatro dell’assurdo.
Innanzitutto, l’albero non c’è: c’è la sua riproduzione in scala, formato bonsai, che vediamo sul proscenio in stato di abbandono. Una piantina solitaria che non fa ombra a nessuno e nemmeno ci prova.
Non si vedono i due in cerca di riparo, eppure si sente una sirena come quelle che avvertono che un riparo si deve invece trovare.
Ecco anche il riparo. Il piano superiore della scena: una scatola cubica a croce greca disposta su due piani e divisa in due sezioni, si apre lasciando vedere due figure supine, testa a testa, che denotano la prossemica invertita rispetto all’albero (alberello) sottostante. Il riparo è lontano da lì. Due esseri che ridono, scalzi. Vladimiro ed Estragone. Non c’è ombra nemmeno di scarpa. Ci sono invece chiazze di sangue che sporcano i vestiti e un elmo da guerra.
Ma loro ridono e mentre ridono dicono che ridere e sorridere non sono la stessa cosa. Lo dice anche Beckett. Perché il testo è il suo, nella traduzione di Carlo Fruttero, nonostante qualche posticcio qua e là che tira dentro persino l’iban e tutti i nomi di sport possibili e immaginabili. Ma è poca cosa. Le battute sono quelle che conosciamo – non succede niente; è peggio morire o restare soli; il tempo si è fermato; Godot arriverà domani -.
Quello che radicalmente si scontra col prevedibile è proprio l’allestimento, di cui scena ed elementi scenici sono parte fondamentale.
C’è una geometria di intenti che si esplicita nello spazio chiuso, mosso solo da pareti scorrevoli orizzontali e verticali che aprono e chiudono sezioni di spazio, nella precisione dei rapporti e dei tempi dei dialoghi, nell’uso delle luci e dei puntati ricorrenti, nei movimenti di Lucky, schematici e ripetitivi, nella collocazione di Pozzo, statuaria e centrale, nella croce che ritorna anche come evidente simbologia cristologica. Perché dalla croce arriverà anche la voce del ragazzo, messaggero di Godot, che rinvia la sua venuta. E che ovviamente non arriva.
Dio non c’è o si è stancato e per questo non arriva. Non so se anche questa è una lettura possibile. Certo che se il portavoce parla loro attraverso la croce, è plausibile che il suo travaglio lo abbia vissuto.
Ma siamo noi a non meritarla, la venuta di Godot oppure ci troviamo sull’orlo del baratro perché Godot non si è palesato?
Non credo che il regista intenda porsi e rispondere a questa domanda, ma la simbologia è insistente e ribadita anche nelle musiche di chiesa. Che insieme ai rumori di bombe e ai suoni di sirene antiaereo ci dicono che siamo, scrive nelle note, «sulle rovine del mondo … in un luogo in cui tutte le ferite del presente e del futuro sono acuite».
Rovine e ferite restituite attraverso un luogo simbolico che nulla ha di realistico se non umori che sanno di guerra, il sangue, l’elmo, i coltelli, tanti, coltelli che calano dall’alto in una sorta di catena a evocare il cappio intorno al collo di Lucky, coltelli impugnati da Pozzo come un samurai giapponese che irrompe squarciando la parete.
C’è una densità di simboli che provano a raccontare il rapporto tra la contemporaneità e il dramma di Beckett, e il rischio saturazione non sempre è scampato. Non sempre l’iperbole aiuta a capire. A meno che la risposta non sia in chiave onirica e le distorsioni apparenti non siano incubi e visioni di due dormienti, sì stanchi di esistere, ma che non si rassegnano.
«In Aspettando Godot» – avverte il regista – «vengono date due risposte possibili: la prima è il tentativo di comunicare e coesistere con l’altro, nonostante gli ostacoli. La seconda è il tentativo di mettersi in comunicazione con l’Altro dentro di noi, quest’area buia e imperscrutabile densa di desideri repressi e paure, istinti dimenticati, in cui dimorano la pazzia e il sogno, il delirio e l’incubo».
Allora sì, a ritroso certe scelte si capiscono meglio. Si capisce la ragion sufficiente, si incastrano i tasselli che ci sono apparsi bislacchi in ogni fessura, compresa la botola da cui è fuoriuscito Lucky, non improbabile recesso di coscienza, compresi i coltelli di Pozzo, compreso l’albero che non può più offrire riparo e allora conviene trovarsene un altro. Si comprende meglio anche il rapporto tra i corpi dei due, ora vicini ora distanti, ora unificati in un essere informe, primitivo, ora distanti, lontani da ogni possibile rispecchiamento.
Se Godot non arriva non significa che non si possa ancora continuare a provare: a vivere, a resistere, a cercare di risolvere il mistero insondabile che ci attanaglia oppure a seppellirlo con una sarcastica e sonora risata.
Vetrano e Randisi sono tutto quel che ho già detto e conservano la grazia immacolata di sempre, anche quando si concedono a tutto il sarcasmo dei due personaggi. Paolo Musio è un Pozzo tuonante di tutto rispetto, ruolo difficile reso ancora più arduo dalla consegna di staticità, Giulio Germano Cervi è un Lucky che recita il castigo e la costrizione senza guinzaglio, prima afasico come da testo, poi logorroico, impegnato in un lungo, apocalittico, visionario monologo: a mio avviso troppo lungo ma che gli è valso l’applauso a scena aperta. Bravo anche il giovane Rocco Ancarola, nel ruolo del ragazzo e messaggero.
Uno spettacolo che ancora non so se mi ha più sorpresa, spiazzata o conquistata con riserva. Quello che so è che va visto, che farà discutere, e che anch’io tornerò a rivederlo.
Aspettando Godot
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
copyright Editions de Minuit
regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
con Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano
e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola
musiche originali Panayiotis Velianitis
consulenza drammaturgica e assistenza alla regia Michalis Traitsis
Training attoriale – Metodo Terzopoulos – Giulio Germano Cervi
scene costruite nel Laboratorio di ERT/Teatro Nazionale
responsabile dell’allestimento e del laboratorio di costruzione Gioacchino Gramolini
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Martina Perrone, Bianca Passanti
progettazione led Roberto Riccò
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Gianluca Bolla
macchinista e attrezzista Eugenia Carro
capo elettricista Antonio Rinaldi
fonico Paolo Vicenzi
sarta realizzatrice e sarta di scena Carola Tesolin
produzione Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Attis Theatre Company
foto di scena Johanna Weber / ritratti: Luca Del Pia.
Teatro Vascello, Roma, fino al 5 febbraio 2023.