Siamo al Parco di Torre del Fiscale. A vederlo sembra un posto molto distante dalla metropoli e invece ne fa parte. Ci troviamo a sud-est della città, nel VII Municipio, un parco urbano compreso in quello dell’Appia Antica. Quest’anno il Festival Attraversamenti Multipli, nato nel 2001 e abituato a dialogare da vent’anni con i paesaggi urbani e il cemento della metropoli, si è insediato in questo contesto naturale-urbano, a poche centinaia di metri dalla linea A della metropolitana.
È una sera romana di luglio, lo spazio aperto si distende sulle rovine dell’acquedotto. Il paesaggio è mozzafiato e presto ci sarà il tramonto. Siamo in attesa di assistere ad una performance. Ci sono molte persone che camminano sul campo aperto. Poco più in là, il prato è disseminato di cuscini per terra. Ci sediamo in ordine sparso, qualcosa inizia. Non abbiamo una scena deputata verso la quale direzionare lo sguardo. Una voce registrata riempie lo spazio. È una voce che riflette sul respiro e che ci invita a respirare. Qualcuno dei presenti chiude gli occhi. Qualcuno comincia a muoversi lentamente e diventa performer. Ha delle cuffie. Non sappiamo cosa ascolta il danzatore nelle sue cuffie. C’è una voce per chi guarda e una voce per chi agisce. Noi ascoltiamo questa voce che ci parla del respiro. Il performer danza la sua forma esatta e fragile, fra corpi di spettatori e impervie accidentali del suolo erboso. Nulla o quasi poteva essere previsto. Le azioni le sperimenta in quel momento, secondo le indicazioni che riceve in cuffia. Nulla è fissato né provato. Ci sono molte persone. Il performer a volte sembra esitare. Poi scivola, guarda, cambia direzione, accelera, salta, cade. La voce che si rivolge ai presenti invece risuona nell’aria. Dopo un po’ il danzatore inizia a toccare gli spettatori, a far entrare la loro immobilità nella danza. Un passaggio di stato. È lì che accade qualcosa. Non ci sono più individui ad assistere. Qualcuno fa spazio, qualcuno aiuta come può. Una signora porge la mano, il braccio al danzatore. Altri accettano semplicemente il contatto. Ora “siamo” insieme. Ora ci guardiamo negli occhi. Improvvisamente siamo una comunità che partecipa. L’attore danzando e toccandoci ci collega e ci rende un “noi” che lo contiene. Attraverso il rischio che si assume, in una danza non preordinata, possiamo condividere qualcosa con lui e fra noi. Mentre esegue la sua danza ad ostacoli, il tramonto cala sulla scena. L’incertezza del performer è la nostra. Non siamo più sconosciuti in un parco. Siamo tutti insieme parte dell’imprevedibilità che danza. Perché c’è l’urgenza di ascoltare: il nostro respiro, le parole, le azioni. La drammaturgia trae ispirazione da Il silenzio è cosa viva di Chandra Livia Candiani e propone suggestioni, testi in forma di dono che Salvo Lombardo ha ricevuto nel tempo e che ora restituisce a noi. Il senso di essere umani, il senso di essere vivi, passa dal riconoscere l’infinitamente fragile che esiste dentro di noi e senza respingere la pluralità che ci contiene. Ogni cosa nel quotidiano urbano ci spingerebbe ad essere soli, disattenti, incoerenti, affannati. Non resta che fermarsi. Respirare. Guardarsi. Guardare l’altro negli occhi. Concepire l’essere insieme. Abbiamo partecipato a Breathing Room di Salvo Lombardo, ha danzato Nicola Galli. Non è strano che l’arte ci riporti a noi stessi, all’essenziale. Lo fa da sempre.
Incontriamo Alessandra Ferraro, direttrice artistica del festival Attraversamenti Multipli insieme a Pako Graziani (collettivo Margine Operativo) al Casale-Ristoro del Fiscale. Chiediamo a lei com’è andato il percorso di quest’anno.
«Siamo molto soddisfatti», afferma Alessandra Ferraro, «questa edizione è andata al di là delle nostre aspettative. Quest’anno era una scommessa perché abbiamo lavorato in uno spazio nuovo, in paesaggi urbani naturali, nella natura urbana e ci stiamo concentrando su questa nuova fase di ricerca. Il risultato era un punto interrogativo anche come risposta del pubblico. Attraversamenti Multipli è un festival che si rivolge alla città di Roma e a un pubblico ampio, anche per questo ha sempre abitato spazi pubblici: il Parco di Torre del Fiscale è un parco urbano pubblico.
È la prima volta che vi confrontate con la natura urbana?
L’anno scorso abbiamo proposto due giornate del festival al parco e il resto si è svolto al Quadraro, a largo Spartaco, nell’isola pedonale che è nel cuore di quel quartiere. Quest’anno, invece, abbiamo scelto di costruire l’edizione 2023 di Attraversamenti Multipli completamente in dialogo con la natura urbana. Il Parco di Torre del Fiscale ci interessa e lo abbiamo privilegiato per il suo sincretismo: intreccia un ambiente rurale di campagna aperta, un contesto archeologico, c’è l’acquedotto romano ma anche la Torre del Fiscale, che dà il nome al parco, di origine medievale, fa parte del Parco Archeologico dell’Appia Antica ed è completamente incuneato nella città, è facilmente raggiungibile da ogni punto della città anche con i mezzi pubblici, la metropolitana è vicinissima. È un polmone verde ma è un verde urbano. E questo ci permette di fare una riflessione anche sulla sostenibilità, per la quale abbiamo sempre avuto attenzione. La sostenibilità è al centro di questa edizione del festival che ruota intorno al concetto di Fragilità.
Da qualche anno portiamo il festival anche a Toffia (nella provincia di Rieti). È interessante perché passiamo dalla metropoli al piccolo borgo medievale.
Che tipo di rapporto avete con gli artisti che ospitate?
Essendo un festival che lavora in spazi particolari è sempre accompagnato da un processo di relazione, di confronto con gli artisti, una progettualità e un processo che dura dei mesi. In alcuni casi gli spettacoli vengono creati in una dimensione site-specific e in altri vengono riadattati per dialogare con gli spazi che abitano (è il caso ad esempio di Come neve, di Adriano Bolognino).
Che risposta avete avuto? Che tipo di pubblico vi ha seguiti e come ha reagito?
C’è stata un’ottima risposta. Un pubblico numeroso ma anche molto attento e “trasversale”. Un pubblico “meticcio”: fatto di chi segue abitualmente la scena artistica contemporanea, ma anche di persone che magari, passando in un parco pubblico, si sono affacciate per caso al festival. E c’è stata anche una forte presenza di persone che, pur vivendo a Roma, sono di altra provenienza geografica. Questo per noi è molto importante. Pensiamo che per la scena contemporanea delle arti performative sia importante confrontarsi con le nuove cittadinanze che innervano il nostro paese, con spettatori con altri background culturali, di seconda e terza generazione, pensiamo che ci sia bisogno anche di altri sguardi. La nostra scena continua ad essere una scena bianca, molto occidentale. Il fatto di riuscire a rintracciare un pubblico che rispecchi la molteplicità di chi vive nella metropoli, per noi è molto importante. Per questo motivo dal 2017 proponiamo all’interno del festival un laboratorio di visione interculturale coordinato da Luca Lotano / Le Re.M: si crea un gruppo di giovani spettatori di diversa provenienza geografica e multilingue che segue il festival e cura in modo autonomo un blog pubblicato sul sito di Attraversamenti Multipli 2023. Si chiama redazione meticcia e attraverso il loro lavoro si crea una piccola comunità intorno al festival.
Siete riusciti a dialogare anche con generazioni differenti?
Da sempre ci interessa dialogare con differenti generazioni. Anche in questa edizione abbiamo strutturato la programmazione di alcune giornate del festival con spettacoli rivolti alle nuove e nuovissime generazioni di spettatori (i bambini): i due eventi che si sono sviluppati il 23 e il 24 giugno a Toffia e a Roma.
Il 5 luglio abbiamo dedicato una giornata alle nuove generazioni di spettatori presentando due spettacoli: Little Garden di Fabrizio Solinas, performance fra circo contemporaneo e danza, e Fire Charmers spettacolo di Fossick Project (un duo composto dall’illustratrice Cecilia Valagussa e dalla cantante e compositrice Marta del Grandi) che propone un teatro delle ombre analogico ma contemporaneo.
Come è cambiato il rapporto con lo spettatore, cambiando paesaggio? In questo contesto lo spettatore non vi incontra per caso, deve venire da voi, è un posto meno attraversato rispetto al quartiere urbano.
Il rapporto è cambiato parzialmente, perché, continuando a lavorare in uno spazio pubblico, e mantenendo salda la nostra scelta di non delimitare gli spazi che utilizziamo, rimane sempre attiva la possibilità dell’incontro con chi attraversa o si trova nel parco. Come ti dicevo è un parco urbano pubblico, per esempio, è attraversato da molte persone in bicicletta – perché è raggiungibile da una pista ciclabile – e molti ciclisti hanno incontrato il festival così, all’inizio per caso, e poi sono tornati nei giorni successivi. Naturalmente l’anno scorso eravamo al centro del quartiere e la dinamica dell’incontro era diversa, ma la possibilità dell’incontro, l’andare concretamente verso il pubblico rimane l’ottica di questo festival.
Mi pare in questo contesto abbia funzionato molto l’evento breve, anzi una serie di performance brevi da attraversare. Sembra un percorso per lo spettatore, invitato a vedere diverse cose.
Chi lavora in un contesto “realmente” urbano – uso non a caso questo termine, nel senso di non protetto, come può essere magari un chiostro dove c’è una dimensione di raccoglimento diversa – è costretto a confrontarsi con tempi diversi di attenzione e di concentrazione degli spettatori. Per questo motivo spesso presentiamo formati più brevi, di venti, trenta minuti. Ma non significa che offriamo agli spettatori soltanto quelli. Per esempio, Non è la fine (a cura di DOM- Valerio Sirna e Leonardo Delogu) è stato un percorso di esplorazione urbana durato quattro ore. Lavoriamo con formati diversi. Abbiamo tenuto in considerazione la fatica dell’artista di lavorare sull’erba, all’aria aperta. È uno sforzo differente rispetto allo spazio chiuso, nel senso anche fisico. Sin dai primissimi anni del festival ci siamo interrogati sul “come” e sulle forme della proposta artistica in una dimensione urbana e open-air e affinato una certa sensibilità nel capire come convogliare l’attenzione del pubblico. L’orientamento verso formati diversi, tra cui l’intervento breve, è sicuramente una scelta.
Com’è la scena naturale della campagna urbana?
Difficile. Un ambiente così rende difficile lavorare con gli occhi di chi c’è perché, in un attimo, l’ambiente può rivelarsi più forte dell’opera. Trovare l’equilibrio tra un ambiente così bello e l’opera del performer è un lavoro di ricerca. Bisogna capire come utilizzarlo. Anche la cura dell’allestimento, nella direzione della sostenibilità ambientale, è una scelta poetica e politica. Abbiamo deciso di non montare pedane, di utilizzare pochissime sedie e sedute a terra che si possono spostare, di lavorare in dialogo col paesaggio senza forzarlo. Un palco con l’acquedotto sullo sfondo avrebbe reso il paesaggio una cornice. Se inserisci l’esistente, la natura, il terreno, nella performance, qualcosa cambia e si apre un dialogo con il paesaggio. E questo è un elemento di rischio per gli artisti.
Una vera e propria regia.
Noi siamo una compagnia, Margine Operativo, abbiamo presentato al festival anche produzioni nostre. Quest’anno, ad esempio, abbiamo proposto Un’altra Medea (si veda l’articolo su Liminateatri). La dimensione performativa del nostro lavoro contamina anche l’organizzazione del festival. In ogni giornata c’è la tessitura di un percorso fra gli spettacoli. Ovviamente lo spettatore può vedere anche una sola performance. Ma c’è un filo ideale fra l’una e l’altra. Il parco stesso è stato utilizzato in spazi differenti: c’è una molteplicità di luoghi, un attraversamento geografico, un percorso nuovo che propone allo spettatore linguaggi artistici diversi. La multidisciplinarietà è la cifra stilistica che ci appartiene.
Arriviamo al tema della Fragilità.
È un tema per noi vivo e presente, in particolare nella modalità di relazione che il festival sviluppa con la natura, nelle modalità di allestimento, rispettose della sostenibilità, e che si incarna anche nell’artista e nel suo lavoro sull’improvvisazione, di adattamento e riadattamento delle performance su un terreno non spianato, non lineare, non artificiale, che appartiene alla campagna urbana. Alcuni spettacoli hanno affrontato il tema del cambiamento climatico, ma l’idea di “fragile” è più trasversale e non investe tanto i contenuti dei singoli interventi ma la “forma” con cui si presentano.
Che rapporto avete con gli artisti? Avete dei compagni di viaggio che richiamate nel tempo?
Alcune compagnie sono tornate più volte, ma in ogni edizione la maggior parte delle compagnie coinvolte sono diverse. Ci sono artisti che hanno una ricerca affine a quella di Attraversamenti Multipli e negli anni hanno dialogato con noi. Come Salvo Lombardo e la compagnia Chiasma ad esempio. O la compagnia lacasadargilla che ha presentato una declinazione creata in esclusiva per il festival del loro progetto multiforme Città sola. O DOM- che è stato presente in più edizioni, in quanto la loro ricerca attorno al rapporto tra corpi e territori e sull’attraversamento / esplorazione urbana è molto vicina a delle traiettorie di Attraversamenti Multipli. Oppure, ancora, Carlo Massari / C&C Company che con Farsi corpo, ha proposto in questa edizione un laboratorio gratuito di danza nei paesaggi naturali aperto a tutti: performer, danzatori, attori (anche non professionisti) e di tutte le età. C’è stata un’affluenza superiore alle aspettative, tanto che abbiamo dovuto aprire il numero chiuso che ci eravamo prefissati, accogliendo quaranta persone. La presentazione del lavoro è stata molto emozionante: c’era un elemento corale molto forte. All’interno del festival accogliamo sempre delle residenze artistiche e proponiamo dei laboratori, questo perché il festival da sempre è attento al processo artistico e anche per questo sosteniamo negli anni il lavoro di alcune compagnie.
Quali sono gli obiettivi del 2024?
Proseguire la nostra ricerca, il nostro dialogo con la natura urbana, approfondire la ricerca sulla creazione di site-specific, continuare ad indagare i processi. Lavoreremo ancora sul tema della Fragilità: per dare un respiro ad una ricerca non la si può esaurire in un anno. Ci vuole del tempo.