All’Angelo Mai di Roma è andato in scena uno spettacolo di cui si è parlato e a cui si sta riservando una certa attenzione. Forse perché il “giovane attore” formatosi nelle fila del Teatro delle Albe (che ne sostiene l’operazione insieme a Masque Teatro e a Menoventi/E-production, come dire, una volta la Romagna Felix e oggi un raggruppamento produttivo ispirato a quell’idea di territorio autoriflessivo) è andato a scomodare un Testori davvero poco frequentato; o forse perché proprio quel testo, quella scrittura senza padroni è capace di raccontare il tempo che stiamo vivendo scevro da perifrasi o sotterfugi linguistici. Autore esponente di un’area cattolica conservativa e auto-fagocitante, il Testori del Macbetto esprime però quel rigurgito, quella “resistenza” alla più retriva forma di pensiero dell’adesso, un “oggi” riflesso di un populismo d’accatto pseudo fascista che stiamo imparando a conoscere, un testo anche urticante con i suoi neologismi e impastature dialettali capace di raccontare il tempo che stiamo vivendo senza lasciarsi impietosire da sé, anzi mortificandosi e depredandosi con vorace autocannibalismo estetico. Il potere è merda (potrebbe ricordarci Mère Ubu, altro memoire nel pedigree del regista e attore), e nel coprofago banchetto di un sistema di violenze, che sostiene una scrittura dolente e cinica allo stesso tempo, la chiave scenica dello spettacolo di Roberto Magnani pare riportare in superficie l’imperituro e paradossale horror di Mario Bava e un Salò pasoliniano aggiornato alle tinte di un decadentismo visivo. Testo e scena hanno lo stesso colore grondante di marciume “sbavato”, rivolto allo spettatore con una interlocuzione persino brechtiana, nel tentativo di far tracimare la nefasta orgia di senso di Testori in un discorso sul fallimento, ch’è esistenziale e artistico, politico allora, arrendendosi all’incompiutezza dello spettatore. Lo spettatore incompiuto è lo spettatore ideale di questo Testori, perché gradisce l’aderenza quasi letterale alla forma-parola di una regia calligrafica. Una mistura niente male per il regista Roberto Magnani, che sceglie di lavorare in piena adesione ai dettami del testo rinunciando a possibili asciugature e distacchi espressivi ed esponendosi ai trabocchetti di una scrittura magmatica, scegliendo piuttosto di accompagnare l’enfatica nodosità della parola con marcature e registri carichi di segno. Ne deriva uno spettacolo teso e ossessivo calato in una dark comedy dal sapore cinematografico, o meglio da graphic novel che dal cinema eredita la paradossale narrazione esacerbata.
Lo spazio è essenziale ma immerso in un gioco tetro di luci attraversato da cromature rosso acceso, l’algidità del grigio fino all’annientamento di un buio acre dove vanno a scontrarsi le inquietudini dei due protagonisti; e qui l’inanellamento shakespeariano di Testori assume la tensione di uno spazio prove di uno spettacolo da farsi, con tanto di toletta da camerino e apertura verso l’oltretomba attraverso lo stipite di una porta, uscio-antro e utero. Come nella tragedia greca, si lasciano fuori le efferatezze ma se ne riportano le gesta sintetizzate come un grumo di sangue. Lo scozzese che ambisce a diventare Re e la sua Lady ordiscono, vomitano parole e sussulti nello spasmo quasi privato di un atto di prossimità con lo spettatore. La “stria” o la “hexe”, creatura delle viscere, putrida suggeritrice di futuro, viene partorita, addirittura “defecata” da Macbetto che si impiastriccia la faccia di merda (appunto), imbellettato come un gerarca fascista con tanto di fez e «vinzeremo!» nel suo articolato di gestualità grottesche sempre sopra le righe. La strega che ha sempre il volto coperto da una lunga capigliatura si muove in un balletto compulsivo, una corporeità “descrittiva”, con la stessa frammentazione della puppe di Hans Bellmer dove le parti sono intrecciate, capovolte, proponendo una coreografia immersa nello spazio e insistentemente presente, derubricando così una narrazione fisica dalle atmosfere alla The blair witch project. È contraltare e propaggine di Macbetto e della sua incapacità di orientare il destino e al contempo è l’altra faccia della Lady, proiezione della follia per il potere nella dipendenza per un corpo-ano, cervello-sfintere, sangue-parola. Tre figure impastate della stessa necessità di morte nell’overdose di epiteti e morbosi deliri, un quadretto melò dove il riso trasborda per il testo che mantiene la sua forza intatta e inaspettata. Si scannano a vicenda in questo teatrino espressionista, le immagini si adagiano a quella letteratura di «sborata» o «ciavada» versatilità, e la macchina teatrale si accelera in quei gesti eclatanti e corpi esposti come figurini di una elegia da fumettone trash di uno “scrivano”, sì uno scrivano ch’è convocato lì a comporre in diretta l’opera, ovvero il compiersi della morte che rincorre la vita. Tra suggestioni dal retrogusto pittorico e una struttura musicale ben calibrata nella sintassi elettroacustica, il lavoro di Magnani ricalca con convinzione le gesta di una ricerca squisitamente novecentesca, privandosi, tuttavia, di ulteriori possibili letture espresse nell’autonomia di un segno contemporaneo.
Macbetto (o la chimica della materia)
di Giovanni Testori
ideazione, spazio, costumi e regia Roberto Magnani
con Roberto Magnani, Consuelo Battiston e Eleonora Sedioli
suono Simone Marzocchi
coreografia Eleonora Sedioli
tecnica Luca Pagliano
clavicembalo Chiara Cattani
realizzazione scene Masque Teatro; squadra tecnica Teatro delle Albe-Ravenna Teatro: Danilo Maniscalco, Fabio Ceroni, Luca Pagliano, Antonio Barbadoro
cura video Alessandro Renda
coproduzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Masque Teatro, Menoventi/E-production.
Visto all’Angelo Mai di Roma il 31 gennaio 2020.
Teatro delle Moline, Bologna, fino al 9 febbraio 2020.