Mantiene nel tempo quella sua caratteristica di crocevia di esperienze internazionali il Festival Oriente Occidente di Rovereto, attraversamento continuo di eventi tra palco, aree verdi, scardinamenti urbani dove le performance connotano una diversa percezione dello spazio più che configurare un’altra attitudine gestuale, contribuendo a ridisegnare nel lessico il concetto stesso di spettacolo in piazza. E l’aspetto meno scontato è quello di vedere compagnie strutturate per lavori in larga misura pensati per la scatola scenica, confrontarsi invece con lo spazio aperto e le confluenze di un pubblico che sciama da una parte all’altra intercettando modalità più prossime allo stare in un luogo di transito cittadino. Se la fisicità acrobatica degli inglesi Prodigal Theatre reinventano una certa idea di parkour destreggiandosi in cubiche sezioni di barre che ne compongono la geometria, volteggiando, saltando e recuperando a terra un tratto più “dialogante” delle azioni fisiche (forse troppo centrate sulla riuscita dell’esercizio che su una poeticità del segno), sono i cinesi Guangdong Modern Dance Company guidati dalla coreografa Liu Qi a trovare la misura tra azioni calibrate su un giardino e la composizione ornamentale dello spettacolo in sala Sumeru.
Della “improvvisazione” in urbano (e come si sa, di improvvisato c’è ben poco soprattutto per le grandi scuole del continente asiatico) risalta la lucidità del formato e del tempo che i giovani danzatori riescono a trovare mantenendo il filo di un afflato accademico, sempre perfettamente organizzato ed eseguito con maestria, e uso iconoclasta dello spazio, rivelando una freschezza inaspettata in quelle uscite repentine o in quelle modulazioni di gruppo o fraseggi in duetto. Del lavoro presentato al Teatro Zandonai, appunto Sumeru, si rimane bensì attratti dalla capacità di esecuzione dell’ensemble alla ricerca di una propria identità nel vorticoso piano sequenza senza sosta di uno spettacolo monstre del moderno e di tutte le sue derivazioni o filiazioni nordamericane e nordeuropee, passando in rassegna quadri già sufficientemente consumati nell’immaginario contemporaneo. Qui la perfezione del gesto ha il suo rovescio nel carattere macchinico, seppure suggestivo. È Michele Merola a riportare al centro del discorso del rapporto fra azione e spazio pubblico una puntuale trazione di significati, con un intervento-spettacolo decisamente funzionale e ben costruito e che evidenzia intelligenza e astuzia compositiva al contempo (il che non guasta), lavorando sul “canovaccio” di un Bolero depotenziato e frazionato in più anime interpretative.
Con il pubblico quasi tutt’intorno a una immaginaria arena di piazza, i danzatori (tutti giovani e preparati) hanno il compito di una esecuzione per “gradi” drammaturgici, imbastendo così una coreografia organica che via via si configura negli interventi per assoli e poi per costruzioni di parti giustapposte e inanellate, dove la partitura musicale reitera Ravel con incursioni elettroniche che la sostanziano, tutto nel segno di un carattere spaziale piacevole, armonico, algebrico e depositario di memorie che bagnano le proprie radici nella tradizione del balletto postmoderno di cui si fa portatore (e erede dell’Aterballetto) lo stesso Merola. Spettacolo di grande impatto ma soprattutto straordinario quando, terminato e presi gli applausi meritati, il gruppo chiama a un secondo round di quella stessa opera il pubblico presente indicando – passaggio dopo passaggio – la scomposizione della coreografia trasmettendone fraseggi e parti così da poterla eseguire tutti insieme, giovani, adulti, danzatori e non. Un invito alla danza (sempre ognuno con le proprie possibilità, che poi è un must di questi tempi) ben accolto e che ha visto un nutrito numero di iniziandi divertirsi e partecipare. È evidentemente una edizione, questa di Oriente Occidente, dove la danza non fa il verso a se stessa ma danza, anzi la danza parrebbe aver deciso di tornare a “ballare” (facendo godere puristi e professoresse\professori della “tradizione” di un contemporaneo avvinghiato alle eredità della modern), evidenziando di fatto un carattere accademico anche involontario pure quando accenna ad altre coloriture del carattere scenico (almeno nei lavori visti), come per esempio nelle pratiche in urbano. E questa traiettoria molto interna alla danza, di recupero del segno e di una quasi “ossessiva” osservanza alle scuole di appartenenza, ha caratterizzato per certi versi anche i tre lavori dei giovani “artisti associati” del Festival, meritevole gesto “politico” che Oriente Occidente continua a perseguire in questa indagine di scouting, sostegno e accompagnamento di “nuove voci”.
In Pietro Marullo si manifestano numerosi debiti e ispirazioni alle tradizioni sopracitate nel suo Hive – our hydrological need of cosmic lines; un lavoro pieno di impetuosità ispirata, ma la marzialità “neotestamentaria”, l’archivio di memorie alla Kubrick e il tratto iconico e dolorifico di Francis Bacon spostano l’obiettivo. Noi percepiamo altro da quanto annunciato nei testi che accompagnano lo spettacolo, costruito alla perfezione intorno e attraverso una forma cubica (ancora un cubo, il totem come viatico esperienziale di questa edizione del Festival) che ri-evoca una ritualità forse “inattuale”, eseguita con un afflato partecipativo puntualissimo e di grande impatto visivo. Uno spettacolo religioso? Dove religio afferisce qui al rispetto di un canone, una ortoprassi corrispondente non a una corretta (coerente) opinione sul mondo ma piuttosto a una corretta maniera di invenzione (più evasiva che eversiva) del mondo stesso. Uno spettacolo esoterico? Dove il mistero imprime nell’indole fisica ed emotiva dei danzatori una scarnificazione da clan? Corpi adamitici alla ricerca di una fuga come gli abitanti dell’Eden del Masaccio, qui ritratti nelle loro gloriose perifrasi tribali catturano l’applauso.
Un altro lavoro carico di significati quanto quello di Marullo è Zoè – appunti sulla nuda vita di Luna Cenere, anche in questo caso si fa il pieno di simboli e distanze concettuali dal noise del contemporaneo, per assottigliare la fisicità dei danzatori sulla barra dell’evocazione e della trasfigurazione visiva, plastica addirittura, nel determinare quadri scenici decisamente pittorici (che sembrerebbero ispirati da un susseguirsi di ritrattistica e vedutistica neoclassica). I corpi di Luna Cenere trasgrediscono il presente, abiurano la decantazione concettuale per recuperare una pre-postmodernità animata da un corpo parlante e senziente, un corpo o-sceno, direbbe Carmelo Bene, solitamente tenuto fuori scena invece qui recuperato nella sua interezza organica e manifesta mai scissa dalla logica. Anche in questo caso ci è stato difficile individuare la compattezza di senso tra le premesse raccontate dalla coreografa Cenere e la manifestazione scenica del gesto in questione, nonché le istanze di questa specifica articolazione dei corpi; di Marullo e della Cenere, ma più in generale di diversi “giovani” autori della danza italiana, si ha la difficoltà di intercettarne il pensiero esposto, la messa in opera di una riflessione (la coerenza fra queste due ellissi creative), chiedendoci qual è il loro cruccio, il fastidio o il dolore che li tocca, dove sta il fuoco. Due lavori compiuti nella misura in cui sono coerenti ed eseguiti alla perfezione, ma cosa dicono alla furia che investe il mondo, qual è il loro posizionamento generazionale? Prova a sfuggire dai lacci della sua stessa biografia Davide Valrosso, al Festival con Who is Joseph?, dove il danzatore mostra di che pasta è fatto. Anche in questo caso, tuttavia, e nonostante il breve incontro con il pubblico a seguire lo spettacolo, non sono dichiarati i temi che lo hanno mosso.
Potentissimo, di grande capacità nel destreggiarsi dentro le lingue danzate e gestuali, come pochi in Italia (e che sa di esserlo piacendosi palesemente), Valrosso si misura con un solo che nella sua parte iniziale esplode come un detonatore; il corpo è la suprema essenza destinato a perimetrare il proprio spazio esistenziale di una delimitazione data, come nel Quad di Beckett, rovinando a terra, caricando di slanci e torsioni, addomesticando una metaforica quadratura sulle inazioni autoironiche. Faticaccia di grande bellezza che dirupa in una dialettica utopica con un’asta, alter ego in forma rigida di un Valrosso in stato di grazia e che fa traspirare dalla pelle quella storia di danzatore, quell’archivio da repertori e passati biografici (più che coreografici), quei reperti iconografici incarnati. Diviso nei quadri Soglia, Conflitto e Resilienza, lo spettacolo si arrende poi ad una “dissoluzione” coreografica che lo traghetta verso il finale.
Oriente-Occidente Dance Festival, Rovereto (TR), dal 29 agosto all’8 settembre 2019.