I giganti della montagna è molto probabilmente l’opera più emblematica che Pirandello abbia scritto sul senso, il valore, la necessità, la “spiritualità” del Teatro, della Poesia e dell’Arte in genere. Lo è tanto più perché rimasta incompiuta: priva cioè di quella forma chiusa che le avrebbe conferito una prevedibilità troppo lontana dal mistero sempre sfuggente della vita e della morte.
E proprio tra vita e morte ondeggia anche una sua possibile interpretazione. Perché in fondo ci sono due modi speculari di leggere questo accorato testamento che l’autore stesso inserì, insieme a La nuova colonia e a Lazzaro, tra i Miti che accompagnarono gli ultimi anni della sua produzione e della sua esistenza.
Vi si mescolano, infatti, un sentimento di distacco dalla realtà, di fallimento del teatro rispetto ad un mondo sempre più indifferente al sogno, alla fantasia (alla “trascendenza umana”, potremmo dire) e, viceversa, il bisogno caparbio di ergere la fragilità stessa degli artisti a fortezza contro l’imbarbarimento rappresentato dai giganti, dal potere, dalla mera materialità. In una lettera del 1930 a Marta Abba Pirandello scrive: «L’opera dovrebbe essere il trionfo della fantasia! Il trionfo della poesia; ma insieme anche la tragedia della poesia in mezzo a questo brutale mondo moderno». Malato e prossimo alla fine, il grande drammaturgo siciliano avverte dunque quella sua ultima creatura come una “resa” e al contempo come un’ennesima battaglia. Non fece in tempo a finirla ma sappiamo che al figlio Stefano confidò di voler inserire nel terzo atto “un olivo saraceno”: simbolo della sua terra, del mito, di una sapienza antica che da millenni ci racconta l’umano, nel tentativo di svelarne le ombre o, più semplicemente, di rassicurarlo.
Non fece in tempo a finirla ma nelle tre parti concluse, e pubblicate tra il 1931 e il 1933, l’autore ebbe l’accortezza di annotare didascalie dettagliatissime e di ambientare la villa degli Scalognati in un mondo “altro”, sospeso tra “favola e sogno”. Quale testamento migliore? Quale eredità più preziosa? In questa eredità si annida un monito estremamente moderno. Anzi, oggi quanto mai urgente. Una sorta di religiosità laica che diventa trincea contro la miopia intellettuale, l’arroganza diffusa, il consumismo feroce, la plutocrazia minacciosa, il vuoto valoriale dei nostri tempi bui.
Non è, d’altronde, un caso che I giganti della montagna (debuttò nel 1936 ai Giardini di Boboli con la compagnia diretta da Renato Simoni) segni con straordinario vigore la storia del teatro italiano e internazionale dal secondo dopoguerra in poi. Basti ricordare, per esempio, le tre diverse edizioni del Piccolo firmate da Giorgio Strehler (1947, 1966 e 1993) lavori in cui si andava progressivamente affinando la contrapposizione tra verità artistica e mondo reale. Nelle note registiche del 1993 il regista triestino scriveva: «Forse nella drammaturgia della rappresentazione o del teatro nel teatro di Pirandello, il dramma più teatrale di tutti è I giganti della montagna. Mito dell’arte che si rappresenta simbolicamente nel “teatro”, nel testo di teatro-poesia, negli attori che lo rappresentano, nel pubblico che non l’accetta o l’accetta con tentennamenti. Mito dell’arte che si rappresenta simbolicamente nella fantasia degli Scalognati. Fantasia che si realizza nella volontà o capacità tenacissima di inventarsi una situazione teatrale quasi solo per sé. Gli altri non devono divertirsi, capire o altro, basterebbe che accettassero la fantasia-follia». Basti ricordare, poi, la lettura metafisica di Carlo Quartucci e Carla Tatò (era il 1989) e quella lirica, soffusa, quasi lunare, di Leo de Berardinis (1993): acclamato spettacolo dove egli stesso interpretava il ruolo di Ilse, recitando dietro un velatino che rimandava l’idea di un’alba semioscura abitata dal germe della Poesia. Basti ricordare, ancora, la recente e personalissima versione di Roberto Latini; versione che con il lavoro di Leo mostrava forti legami, malgrado l’intera opera venisse declinata sull’unico corpo-voce dell’attore in dialogo con la musica di Gianluca Misiti, quasi a volere rappresentare un dramma tutto interiore, intimo, individuale.
Insomma, comunque lo si legga, I giganti della montagna resta un capolavoro indiscusso. Un’opera di cui abbiamo e avremo sempre bisogno. Dopo le repliche milanesi, è ora in scena la Teatro Eliseo di Roma la lettura che di questa grandiosa opera fa Gabriele Lavia, giunto qui al suo terzo allestimento pirandelliano dopo quello dei Sei personaggi in cerca d’autore (2015) e quello de L’uomo dal fiore in bocca…e non solo (2016), e giunto anche alla sua regia più corale, più fantasiosa. Dando massimo sfogo ad una libertà immaginifica non priva di concretezza, egli realizza infatti uno spettacolo estremante vivace, animato, ricco di colori, voci, costumi, maschere, presenze e trovate sceniche. Spettacolo dai toni marcatamente grotteschi, persino felliniani e circensi, che ricorda le tinteggiature pop di quell’Avaro di Molière diretto nel 2003, e che gioca alla caricatura sfacciata per rendere sfacciata (a tratti fin troppo) proprio l’immaginazione. Con il rischio – appunto – di un trasbordare di codici e spunti non sempre efficaci.
Anche la metafora del Teatro in pericolo è vistosamente amplificata dalla scenografia imponente di Alessandro Camera, che mette sul palcoscenico un teatro all’italiana distrutto e impolverato: un elegante reperto in odore di raffinata architettura barocca che sembra reduce da un bombardamento aereo (probabile evocazione di un luogo da salvare dalla barbarie moderna, carica di morte e distruzione). In questo “santuario” dalla bellezza violata, che dunque allude alla villa degli Scalognati, abita un popolo di stravaganti figure per lo più buffe e clownesche: fanciulli, donne, nani, irrequieti e ingenuamente naïf intenti a saltare, ballare, parlare spesso uno sull’altro, mostrandosi ora lieti ora improvvisamente mesti.
Il tema pirandelliano della maschera e del mascheramento è dunque qui molto accentuato e serve anche a controbilanciare la semplicità quasi dimessa di Cotrone, interpretato da Lavia stesso. Cappotto lungo e fez bordeaux sul capo, egli è il mago-demiurgo-filosofo-ragionatore che orchestra e guida quella ciurma di anime circensi con fare sereno e tranquillo. Rappresenta l‘anima lirica del testo. Al sogno infantile dei suoi guitti, contrappone la saggezza compassata dell’età, la consapevolezza di chi con il mistero della vita è sceso a patti e ha scelto di difenderlo senza troppi clamori. A volte, però, le sue battute non si sentono bene, sopraffatte dallo schiamazzo di quegli artisti/fantasmi invaghiti del loro stare lì, nel teatro da salvare.
Su questa visionarietà fastosa e bizzarra, la regia innesca poi un ulteriore doppio binario: la metateatralità esasperata di Ilse e della sua compagnia girovaga e il dramma borghese che in un certo modo riguarda la vita personale dell’attrice stessa e di suo marito, il Conte. L’arrivo degli attori dal fondo della platea (quasi un topos comune a tante messinscene dei Sei personaggi nel quale è possibile rintracciare l’idea di un legame imprescindibile tra creature di fantasia e spettatori) vuole essere dirompente. Essi – come è noto – portano in quel teatro appartato e magico, la necessità di rappresentare ancora una volta La favola del figlio cambiato, opera scritta da un giovane poeta suicidatosi per amore della primattrice. È soprattutto lei, Ilse, a perseguire con ferrea volontà questo intento e qui Federica Di Martino (lunghe chiome sciolte, fisicità molto dinamica e un registro complessivo calibrato su toni melanconici) dà vita all’immagine di un’artista invasata, folle; una grande attrice dallo stile ottocentesco infervorata e quasi in stato di trance, che tuttavia risulta troppo melò, troppo monocorde rispetto alla fragile poliedricità del personaggio.
Una cosa è certa: l’arrivo di questi attori disperati nella villa di Cotrone – sobri anche nei costumi e nei colori degli abiti – rompe la giocosità onirica della prima parte, portando la Vita del Teatro dentro quel mondo di fantasia sfrenata e dando a Lavia-regista l’occasione per un’altra trovata molto decisa: quando l’arsenale delle meraviglie si prepara ad accogliere la recita della Favola, i personaggi di quest’ultima diventano fantocci impersonati da mimi che indossano splendide maschere chiare (opera di Elena Bianchini). E la luna splende in uno spicchio di cielo, come fosse un richiamo di leopardiana memoria.
Ma il dramma di Ilse può essere rappresentato solo in piccola parte. L’interprete stessa cede alla fantasia, alla poesia, mentre la minaccia dei giganti arriva da lontano sotto forma di passi sonori. Cotrone/Lavia invita il pubblico a non smettere di credere nell’Arte e confeziona un finale carico di lirismo e di pathos. L’epilogo pirandelliano resta ovviamente un mistero. «Ho paura», sono le ultime parole che il grande drammaturgo scrive. «Ho paura», dice il mago della villa. Anche il festoso corteo che lo circonda ora è assorto e incredulo. Ma viene da pensare che la vittoria sia tutta dalla sua parte. Giocoforza.
I giganti della montagna
di Luigi Pirandello
con Federica Di Martino, Clemente Pernarella, Giovanna Guida, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Gianni De Lellis, Federico Le Pera, Luca Massaro, Gabriele Lavia, Nellina Laganà, Ludovica Apollonj Ghetti, Michele Demaria, Daniele Biagini, Marika Pugliatti, Beatrice Ceccherini, Luca Pedron, Laura Pinato, Francesco Grossi, Davide Diamanti, Debora Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi
luci Michelangelo Vitullo
maschere Elena Bianchini
coreografie Adriana Borriello
regista assistente Francesco Sala
assistente alla regia Angelica Fei Barberini
regia Gabriele Lavia.
Teatro Eliseo, Roma, fino al 31 marzo 2019.
Teatro dell’Unione, Viterbo, 3 e 4 aprile 2019.