Silvia Albanese dopo una laurea in Lettere Moderne a Pisa e in Discipline Semiotiche a Bologna, si perfeziona al Master in Teatro Sociale e di Comunità dell’Università di Torino. Dal 2010 si occupa di promozione, comunicazione, organizzazione e produzione collaborando con artisti, festival, reti nell’ambito della danza contemporanea (tra cui ALDES di Roberto Castello, Interplay Festival, Torinodanza Festival, Bolzano Danza-Tanz Bozen, Progetto RIC.CI). Autrice di un Diario coreografico pubblicato da “PAC – Pane Acqua Culture”, è in formazione come counselor a mediazione corporea. In questo momento la sua ricerca come creative producer è focalizzata sull’analisi del paesaggio coreografico del presente: il visibile e l’invisibile, le modalità di accesso al sistema e le possibilità di sviluppo delle progettualità artistiche, la democratizzazione nell’accesso alle informazioni e lo sviluppo di nuove reti e servizi in relazione a quanto esistente e già attivo in altri Paesi. Collabora con il festival MilanOltre, Chiasma/Salvo Lombardo, Valentina Pagliarani, Cristina Kristal Rizzo.
Il panorama della danza italiana (che per comodità definiamo contemporanea) sembrerebbe aver cambiato radicalmente i propri statuti e ridefinito le proprie radici; detta così, potremmo anche dire che si continua a “trascrivere” con le stesse parole di sempre esperienze artistiche per certi versi definitivamente traghettate in un altrove di senso che confligge con l’idea stessa di identità (e probabilmente di radice). Il discorso di Kwame Anthony Appiah sull’identità ci ricorda che «il ricorso alle identità come base di gerarchie e strutture di potere» hanno disegnato storicamente, anche inconsapevolmente, un immaginario “razzializzato” di base capitalistico e coloniale. Una tua idea?
Per me l’identità è qualcosa di fluido, non cristallizzato, e le radici ce le portiamo dietro. Niente mi ha creato più dolore nella vita quanto l’illusione della “fissità”.
Più che di identità mi piacerebbe dunque parlare di métissage e di ibridazione (1). Trovo che identità e rappresentazione siano nozioni epistemologicamente povere in sé, retaggio della metafisica platonica e medievale.
Credo che alla mente (e al potere) faccia comodo classificare, e dunque mettere etichette, nominare, separare, definire secondo le opposizioni della logica binaria; porre arbitrariamente delle linee di demarcazione, creare dei confini: è un modo di semplificare la complessità del reale. La logica del dizionario che si contrappone a quella dell’enciclopedia, per dirla con Umberto Eco.
La narrazione (o la trascrizione) che ne deriva, non può che essere riduttiva. Impoverisce il reale, in un certo senso. Svuota il reale della sua vitalità.
Mi sembra dunque più interessante riflettere sul concetto di métissage: per i teorici del métissage le differenze non vanno né annullate né assolutizzate. Le identità culturali non sono entità statiche, ben delimitate fra di loro e omogenee al loro interno, quanto piuttosto fenomeni plurali e in perenne movimento, attraversati da continue tensioni, relazioni e scambi reciproci (in ciò il paradigma del métissage non è dissimile dalla critica post-coloniale e dall’antropologia transnazionale).
Il paradigma del métissage rivolge molta attenzione alla costruzione dell’identità individuale, assegna un ruolo cruciale all’alterità come componente intrinseca e costitutiva della soggettività meticcia e assegna un ruolo altrettanto cruciale all’arte e all’esperienza estetica.
Il contemporaneo, il “reale”, si comprende e si trascrive meglio se lo si vive con tutto il corpo, non solo con la mente; se si sta nel processo, se si sta nella relazione.
Il mio desiderio di raccontare la danza contemporanea con le parole ha preso la forma di un diario: non sono separata da ciò che osservo, ci sono immersa; e l’autrice o autore è qualcuno con cui entrare in dialogo, prima e dopo l’accadimento dello spettacolo.
Quando si parla di incertezza identitaria o di perdita dell’identità, a mio avviso si parla di preziose opportunità di risignificare il reale: le incertezze sono possibili aperture e potenziali squarci nei nostri cieli di carta.
Cieli di carta che sono anche castelli di carta: basta soffiarci sopra una parola nuova, che subito crollano.
Per questo mi piace inventare parole, cercare le parole per definirmi, per definire la mia identità professionale.
Anche le locandine degli spettacoli, i crediti, sono per me rappresentazioni di dinamiche di potere, mentre è sempre più difficile trovare le giuste parole per riconoscere e rendere visibili tutte le professionalità e prima ancora tutte le “anime” che hanno contribuito alla realizzazione di quello specifico oggetto (uno spettacolo, un festival…).
È strano: viviamo in un mondo narcisista e individualista, eppure la tendenza è sempre quella di appiattire le differenze, creare omologazioni, cercare definizioni; i processi di empowerment personale potrebbero incoraggiare le persone a definirsi sempre meglio nella propria peculiarità, nella propria costitutiva differenza. Essere coscienti della propria unicità ci aiuterebbe anche a riconoscerci differenti eppure simili ad altre/i, e dunque forse ci aiuterebbe a “fare categoria”, cosa di cui c’è un gran bisogno, soprattutto oggi.
Certo, definire la danza contemporanea a fronte di un pulviscolo di nature e caratteristiche diversificate e complesse, come quella degli ultimi decenni, comporta uno sforzo “esegetico” notevole. Anche in termini organizzativi e progettuali. Come interpreti il tuo ruolo in questo sistema così frastagliato?
In questo frastagliato (e opaco) sistema ho scelto di assumere un ruolo di mediazione, di relazione, di sviluppo. Forse sono queste le parole che meglio descrivono le modalità attraverso le quali in questi 10 anni mi sono posta a servizio dei progetti che ho abitato nell’ambito della danza contemporanea. Il ruolo che occupavo in un progetto, dunque la mia temporanea identità professionale, era sempre un meraviglioso punto di osservazione di quel mondo: social media manager, organizzatrice, project manager… Come quando guardi attraverso un caleidoscopio e l’immagine è sempre in qualche modo deformata, così il punto di osservazione è personale, sempre situato e incarnato. Da questi vari punti, e soprattutto nei transiti da un punto all’altro, nell’insoddisfazione che puntualmente maturavo e che mi spingeva ad andare altrove, a proseguire la mia ricerca umana prima ancora che professionale, ho cominciato a osservare il paesaggio e farmi un’idea della geografia in cui ero immersa.
In questo cammino, cerco di capire in che modo le mie competenze e la mia personale sensibilità possano essere utili al “sistema danza”; mi muovo alla ricerca delle fenditure, come dicevo prima, o per meglio dire in questo caso dei “vuoti”, cercando di immaginare, nel mio piccolo, strategie per colmare questi vuoti, con una speciale attenzione a quella che chiamo “ecologia del sistema”.
Ti faccio alcuni esempi: il diario coreografico voleva essere la proposta di un altro modo per raccontare la danza, con un focus principale su coloro che più hanno bisogno di recensioni ma di cui difficilmente si scrive (le/i cosiddette/i emergenti). La creazione di una rete degli organismi di produzione della danza under 35, necessità nata dal dialogo con Salvo Lombardo e accolta dagli altri organismi finanziati (2), che è diventata per noi un punto privilegiato di osservazione e narrazione progettuale del paesaggio coreografico del presente.
Durante la mia prima esperienza come fruitrice di un festival digitale, lo Spring Forward di Aerowaves, ho sentito la mancanza di un momento di confronto internazionale e anche un po’ caldo, informale, sul momento che stavamo (stiamo) vivendo; così, con la complicità di Pietro Marullo, ho proposto di incontrarci in una room virtuale per attivare un dialogo internazionale resiliente. La proposta è stata accolta da John Ashford e Anna Arthur, e ne è nata l’esperienza The Foyer: un gruppo di professionisti della danza contemporanea provenienti da tutto il mondo si sono incontrati una volta la settimana su Zoom per scambiare idee e strategie, in un contesto virtuale non gerarchico.
E poi da anni, come tante colleghe e colleghi, auspico l’emersione e la valorizzazione della figura professionale del producer e la creazione di una rete nazionale da poter mettere in relazione con analoghe reti già esistenti in altri Paesi, durante il lockdown abbiamo cominciato ad attivarci in questo senso all’interno del progetto CURA di Valeria Orani.
È interessante una recente riflessione di Donatella Di Cesare intorno al concetto di “virus”. Partendo dalla parola latina immunitas, da intendere – tra gli altri significati – come un vincolo perpetuo, una obbligazione, in qualche modo un tributo, giunge poi all’idea opposta, cioè di comunità, ovvero luogo aperto, non protetto, permeabile, dove si è legati, sì, «vincolati gli uni agli altri, costantemente esposti, sempre vulnerabili». Ecco, la danza di questi decenni si mostra più come una comunità per me e meno come spazio separato (immune) dal “reale”. Per te?
Forse la cosa più complessa è capirci su cosa intendiamo con “reale”, ma senza dubbio concordo con te: sento che la danza è una comunità, la comunità di cui ho scelto di far parte.
Apertura, fragilità e porosità sono valori che pervadono le poetiche di autrici e autori, e allo stesso tempo sono valori che permettono di attuare strategie nell’affrontare la quotidianità della propria pratica professionale, qualunque sia il ruolo che si occupa all’interno dell’ecosistema danza: la fragilità è costitutiva del settore, in assenza di politiche adeguate, e la consapevolezza di ciò dovrebbe essere alla base della percezione di sé, oltre che dei propri interlocutori. Essere consapevoli e accogliere questa fragilità diffusa ci consentirebbe forse di vedere l’altro non come un nemico o un competitor, qualcuno da annientare o distruggere, qualcuno che prende potere su di noi o su cui prendere potere, bensì come chi è portatrice/portatore di una potenziale alleanza. Qualcuno con cui entrare in dialogo per scoprire quale valore specifico e peculiare si può generare nell’incontro.
Abbiamo visto quanto sia stata immediata, forte e potente la percezione della propria e dell’altrui fragilità in tempi di COVID-19. Improvvisamente da vari punti dell’ecosistema si è accesa la necessità di allearsi, di iscriversi ad associazioni di categoria, di fare rete, prima di tutto per ricevere informazioni attendibili. Quando è scattato il lockdown, il 7 marzo 2020, ero a casa mia a Milano con Manolo Perazzi e Riccardo Olivier: stava nascendo il gruppo Lavorator_ della Danza, un ulteriore movimento del contemporaneo, a partire dalle esperienze di B9 e CCNL_Lavorator_spettacolo_danza ovvero dal dialogo tra danzatrici, danzatori, insegnanti di danza, autrici e autori con la SLC CGIL.
Mi piace osservare tutto questo movimento, nel paesaggio del presente, tuttavia a volte è come se queste reti, separate le une dalle altre, mi facessero sentire ancora più sola, isolata. A volte temo che si confonda il fare comunicazione con il fare politica. A volte mi affatica il tentativo di costruire un vero linguaggio comune. A volte mi deprimono la totale mancanza di coscienza storica e di consapevolezza circa gli strumenti già a disposizione.
Ma sto divagando troppo, scusami. Tornando alla danza e al reale, trovo che la danza degli ultimi decenni sia assolutamente immersa nel reale e ce ne restituisca una visione, spesso nel rispetto della complessità di questo reale che si abita e in cui si agisce al contempo. Penso a quanto la danza riesca ad attivare comunità nei territori, anche attraverso esperienze partecipative o immersive di altissima qualità estetica: assisto a una danza porosa rispetto al reale, in questo senso, e meticciata dall’incontro con altri linguaggi non solo artistici, ma anche epistemologici e mediatici. Questa è la danza che amo.
Dal tuo campo di osservazione e azione, cosa sta configurando, cosa sta dicendo la danza contemporanea oggi?
Dal mio punto di vista la danza contemporanea oggi sta chiedendo un cambiamento. Chiede trasparenza. Chiede che diventi visibile ciò che è ancora invisibile. Chiede una redistribuzione del potere. Chiede inclusione. Chiede libertà: la libertà di poter sperimentare, di potersi contaminare, aprire, ibridare.
Ci sta parlando di un forte desiderio espressivo, ma anche della paura, della fragilità, della fatica dell’esposizione, di un desiderio di condivisione.
Sta chiedendo di riconfigurare la relazione con il cosiddetto pubblico – questa entità indifferenziata da far crescere e da ingaggiare non senza fraintendimenti – e con gli spazi. Sta chiedendo al legislatore di mettere a disposizione i propri strumenti per disegnare uno scenario coerente con il reale, poiché allo stato attuale la realtà in cui viviamo non è descritta affatto dal legislatore, ed è costretta a fare i salti mortali per adeguarsi a quanto previsto, per poter sopravvivere. Sta chiedendo benessere, che naturalmente non significa ricchezza, ma significa essere messi nelle condizioni di lavorare bene e dunque stare bene. Sta chiedendo che il nostro lavoro venga considerato un lavoro, e che questo si riveli anche negli accessi alle posizioni di potere, che dovrebbe avvenire secondo pratiche trasparenti e meritocratiche.
Sta ridendo fino alle lacrime.
Sta chiedendo di toccare.
Oggi durante l’incontro di The Foyer ho scoperto che in Korea esiste una nuova parola: untact. Si sta infatti diffondendo un’economia basata sul non toccare, cioè sulla vendita di prodotti che non implichino il contatto umano. Trovo agghiacciante lo scenario distopico che questa parola evoca, eppure molto realista e coerente con l’attuale migrazione on line del capitalismo neoliberista.
Quali modelli produttivi dal tuo punto di vista possono essere più aderenti al tempo presente e alle sue problematiche? Quali prospettive auspichi?
Abitiamo un contesto fragile, lo abbiamo già detto: emerge la necessità anzitutto di formare le giovani generazioni di artiste e artisti all’ascolto della propria fragilità e della propria unicità, non all’adeguamento a un modello che indica un’unica direzione di sviluppo possibile: questo è ciò che intendo quando parlo di empowerment. La realtà è più complessa e le direzioni si ramificano, abitiamo una realtà rizomatica.
Non è l’epoca della competizione, bensì della condivisione. La realtà ce lo mostra sotto diversi aspetti: crescono le reti, le alleanze, le fusioni, le collaborazioni, le piattaforme. Giovani autrici e autori si alleano sotto il nome di “compagnia” ma si tratta di una “compagnia” che è un’alleanza.
Il paesaggio si compone di costellazioni di autrici/autori, coreografe/i e danzautrici/danzautori, che molto spesso sono emersi grazie all’azione di scouting nazionale promossa dal network Anticorpi XL, o al lavoro degli incubatori coreografici come Anghiari Dance Hub e C.I.M.D.
La geografia che ne emerge è quella che si vede rappresentata in collettivi come VAN o Zebra: possiamo vedere in queste alleanze il seme di un potenziale sviluppo di futuri Centri coreografici? Queste alleanze sono solo fortuite oppure costituiscono delle buone pratiche? Quali possono essere le buone pratiche in un’alleanza tra autrici/autori?
Sicuramente si osserva che nell’ecologia del sistema appare fondamentale per gli autori e le autrici allearsi con colleghe e colleghi per condividere e ottimizzare risorse umane, economiche e produttive: condividere il personale amministrativo, avere i requisiti professionali.
Più che concentrarsi su autorialità e singolarità, dal mio punto di vista conviene osservare il panorama tenendo in considerazione il progetto artistico: il micro progetto che è la singola produzione (ouvre), e il macro progetto che è la costruzione di un’identità artistica che si compone delle produzioni della singola autorialità (ouvrage). Intesa come progetto, l’opera necessita di diverse professionalità per potersi realizzare, e l’opera si intende compiuta quando vive in una circuitazione e si apre al dialogo con il pubblico.
Parallelamente assistiamo all’emersione di numerose/i professioniste/i della danza che accompagnano e sostengono i progetti con la propria professionalità. Alle figure di organizzazione, amministrazione, distribuzione, si aggiungono e si rendono altrettanto necessarie figure legate alla produzione o allo sviluppo dei progetti, alla promozione e alla comunicazione.
Tali figure professionali, data l’esiguità dei budget a disposizione dei più giovani coreografi, collaborano con più artiste/i (talvolta anche di ambiti diversi dello spettacolo dal vivo) sono indipendenti, freelance, dotate di un grande potenziale di sviluppo di relazioni e reti.
Ecco, sarebbe bello per me partire da qui: da occasioni di confronto e scambio intorno a questo: accertarci di osservare il medesimo paesaggio, essere disponibili a inventarci nuovi nomi per descrivere il reale, creare un vocabolario condiviso. Fare che queste parole non siano vuote bensì dense di senso e di valore, in modo che con queste possiamo cominciare a costruire insieme il paesaggio del futuro. Un altro punto fondamentale: la redistribuzione del potere nelle relazioni, sia quando si parla di ouvre che quando si parla di ouvrage, favorendo l’ecologia del sistema.
Per concludere, hai una figura di riferimento alla quale ti ispiri?
Nessuno degli incontri che facciamo nella nostra vita è casuale: da ciascuna delle persone che incontriamo c’è qualcosa da imparare, se stiamo in ascolto e andiamo oltre la voce del nostro ego e da qualsiasi forma di giudizio, in positivo o in negativo, oltre che da qualsiasi forma di pregiudizio dovuto al “potere” che quella persona ha o crediamo che abbia. Il lavoro per me non è separato dalla vita. La mia crescita personale e la mia crescita professionale sono connesse e si nutrono a vicenda. Cerco di instaurare sempre relazioni autentiche. Tutti gli incontri professionali che ho fatto sono stati importanti, costitutivi della mia storia e generatori di relazioni. Ringrazio tutte le persone che mi hanno offerto un lavoro, che sono entrate in dialogo con me, che mi hanno accolta nei loro progetti. Grazie anche a te, Paolo, per l’opportunità di questo scambio. Cito solo un maestro: il teorico della letteratura Francesco Orlando, dal quale ho imparato a generare sconfinamenti disciplinari generatori di senso; ogni volta che comincio a scrivere qualcosa penso a lui.
1) F. Laplantine, Identità e métissage. Umani al di là delle apparenze, Eleuthera, Milano, 2004.
2) La Alliance Italia Under 35 è composta dagli organismi di produzione Under 35 finanziati nel triennio in corso: Perypezye Urbane, Carlo Massari, Codeduomo/Daniele Ninarello, Chiasma/Salvo Lombardo.