Gerarda Ventura è stata danzatrice e, successivamente, nel 1991 ha frequentato il primo corso di Management dello Spettacolo dal vivo presso l’Università degli Studi LUISS di Roma, iniziando a lavorare come organizzatrice ed amministratrice per compagnie di danza e teatro. Ha collaborato con la Fondazione Romaeuropa, la Biennale di Venezia, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro Stabile dell’Umbria e il “Premio Equilibrio” per la coreografia contemporanea italiana con la direzione artistica di Sidi Larbi Cherkaoui. Fondatrice del network internazionale DBM – Danse Bassin Méditerranée, cura progetti dedicati alla danza in partenariato con artisti e strutture del mondo arabo. Attualmente è direttrice artistica di Anghiari Dance Hub, centro di promozione della danza. Nel 2019 con Alessandro Pontremoli ha pubblicato La danza, organizzare per creare per FrancoAngeli editore.
In un tuo recente articolo il corrispondente Paolo Valentino (1) ricorda la risposta dello Stato nordamericano nei confronti degli allora sconosciuti Pollock, Rothko, de Kooning e altri, a fronte della débâcle finanziaria che si trovò ad affrontare durante la Grande Depressione. In Italia, tra gli artisti che più stanno soffrendo questa situazione di dilatazione di un tempo immobile troviamo i creatori (le creatrici) della danza e della performance contemporanee, sei d’accordo?
Divertente questa cosa! Conosco personalmente Paolo Valentino ma non avevo letto il suo articolo né sapevo delle iniziative per gli artisti pre e durante il New Deal.
Credo che tutti quelli che lavorino nello spettacolo dal vivo stiano soffrendo, certo, gli artisti della danza in maggior misura perché abituati ad “abitare” lo spazio, la vicinanza.
A proposito del New Deal americano, l’abbandono di cui soffrono tutti i lavoratori dello spettacolo è, al solito, disarmante ma i “domiciliari” almeno hanno spronato a dar vita a una serie di gruppi autorganizzati che stanno cercando di acquisire conoscenze riguardo i loro diritti e rivendicarli. Italicamente manca un raccordo tra i gruppi ma … meglio di niente!
Quali sono i “significati” o le “esperienze” che la danza riesce oggi ad apportare al pensiero contemporaneo? Come si declinano, quali interferenze intercettano oltre il proprio specifico linguistico?
Beh, la danza contemporanea ritengo sia l’opera oggi che meglio di tutte le altre riesca ad inglobare tutte le forme artistiche esistenti e di proporne di nuove.
Non a caso molti autori si indirizzano più verso forme autoriali che prescindono dalla o dalle tecniche di danza o per lo meno non sono da queste dominate. Il problema, a mio parere, è la reale conoscenza di queste forme altre e la padronanza nel proporle e utilizzarle che, spesso, è estremamente scolastica e superficiale finendo per diventare degli ingombranti orpelli che celano una mancanza di pensiero.
Una tua idea come curatrice di processi formativi legati alla danza
Ovviamente parliamo di Italia. Un disastro! Da 5 anni di lettura di curriculum di giovani coreografi e loro interpreti, l’impressione è che da un lato i nostri artisti frequentino sempre meno le risorse disponibili in altri Paesi e che l’offerta formativa qualificata di base e di perfezionamento in Italia si sia notevolmente ridotta rispetto agli anni passati.
L’aver equiparato il diploma dell’Accademia Nazionale di Danza a quello universitario, aver creato i licei coreutici, ha reso ancora meno organico il processo di formazione e perfezionamento degli artisti della danza. Soprattutto i licei coreutici non hanno scopo, mission chiare, e continuano a mancare programmi formativi organici.
Che tipo di esperienza è per i giovani coreografi-danzatori (coreografe-danzatrici) quella di Anghiari Dance Hub?
ADH è un progetto di “cura” degli artisti e di essi in quanto persone. È un po’ questo il feedback che riceviamo da chi ci ha abitati.
Sono, negli ultimi due anni, 3 mesi continuativi di sospensione dalle ambasce quotidiane e di immersione nel proprio lavoro, come autori e come interpreti.
Dopo ogni seminario chiediamo dei feedback per ogni tutor e ne sollecitiamo anche allo staff, cercando di seguire, per quanto siamo in grado di fare, le loro esigenze.
Nessuno dei giovani coreografi ha mai potuto usufruire di un periodo così lungo dedicato al proprio lavoro e di un confronto anche conflittuale con colleghi molto diversi tra loro.
Mi chiedo e ti chiedo, che senso ha proporre frammenti, piccole porzioni di azioni coreografiche in appartamento, come ne vediamo in questi giorni sul web?
Li ho interpretati come una sorta di necessità di approvvigionarsi di ossigeno, di continuare in ogni luogo a confrontarsi con il proprio corpo.
È’ stato anche una sorta di gioco da proporre soprattutto a chi della danza non conosce nulla o solo Bolle e invitarlo a condividere un breve momento.
Questi formati, tra l’altro, rispondono egregiamente ai ritmi della quotidianità, fatta di brevissimi momenti dopo i quali si passa ad altro. Delle pillole.
Diverso è il discorso sull’uso del digitale. È un campo che mi ha sempre incuriosito, totalmente differente dal “vivo”, che la danza ha già incontrato da tempo, pensa a Il coreografo elettronico che nacque alla fine degli anni ‘90 o al lavoro di Ariella Vidach che incorpora tecnologie digitali nelle sue creazioni. La diatriba “vivo” versus digitale è un falso problema.
Quali strumenti legislativi e dunque concreti si potrebbero adottare, dal tuo punto di vista, affinché il comparto della danza (nelle sue più diversificate forme di espressione e di ricerca) possa non perdere la sua produttività? Come si può ripensare la produzione di danza in questo momento?
Non amo molto usare il termine prodotto e suoi derivati per arte e cultura ma lo accetto per semplificare la comprensione.
Se parliamo, quindi, di produzione e produttività, la danza non può prescindere dall’intero sistema dello spettacolo dal vivo che resta ottocentesco e radicato nelle sue obsolete strutturazioni.
Torniamo alla danza. L’iperproduttività è indotta dai meccanismi delle contribuzioni pubbliche che non tengono conto né dei tempi di creazione né della reale capacità di accoglienza delle opere di danza. Inoltre i mezzi di cui dispone la danza sono del tutto inadeguati alla possibilità di procedere, gradualmente, verso lavori sempre più impegnativi, in termini di interpreti, collaborazioni artistiche, ecc.
Di conseguenza la “produttività” dovrebbe essere rapportata a tutta quella serie di azioni che gli autori e le proprie strutture generalmente intraprendono secondo il proprio processo creativo e che, generalmente, riguardano ambiti formativi, di sensibilizzazione del pubblico, di attraversamenti e incontri con altri campi della conoscenza.
Pensi che in Italia siano necessarie politiche culturali che legittimino maggiormente, l’ambito di una ricerca “improduttiva” (rispetto agli attuali parametri iperproduttivi)?
Continuando quanto detto appena sopra, faccio fatica a definire e inquadrare dentro schemi differenti le fasi di lavoro di un artista. Tutto quello che egli/ella elabora, anche per sottrazione, farà inevitabilmente parte di un’opera o di uno specifico percorso. Di conseguenza tutte le fasi devono concorrere al riconoscimento del percorso creativo che spesso è la fase più interessante di indagine e approfondimento e della quale l’opera finita non può rimandare che una pallida immagine. E proprio le fasi di “ricerca” sono quelle che maggiormente possono essere condivise con i cittadini per condurli verso una maggiore comprensione e condivisione della materia danza.
Trovo straordinariamente lucido quanto riportato dallo scrittore Etgar Keret in una sua recente intervista: «Ecco, la storia che racconteremo non sarà sulla situazione, ma come la situazione ci abbia cambiati». (2)
Lo slogan “niente sarà come prima” può essere valido purtroppo in negativo. A parte i gruppi autorganizzati di lavoratori, che spero non si sciolgano come neve al sole, non mi sembra proprio che ci siano ipotesi di cambiamento non dico in atto ma neanche in pensiero.
La paura continua ad essere il fantasma che si aggira per l’Europa (e il mondo), prima la paura del contagio, poi quella dell’impoverimento e temo che abbiamo perso la capacità di pensare e vedere oltre il pezzo di terra su cui poggiamo i piedi.
Spero proprio di essere contraddetta.
Note
1) Paolo Valentino, L’America che salvò l’arte. Durante la Grande depressione lo Stano aiutò migliaia di giovani, in “Corriere della Sera”, 23 aprile 2020, p.38.
2) Etgar Keret, Tutto avviene per caso, colloquio con Wlodek Goldkorn, in “L’Espresso”, 26 aprile 2020, p.70.