È teatro, cinema? O arte visiva? E se fosse qualcosa che precede queste forme e paradossalmente le supera? Se fosse la vita che diventa narrazione attraverso la capacità, esclusivamente umana, di tracciare cornici? Ce lo domandiamo risalendo il Molgora, fra Villa Corna e la vetta del Monte di Brianza, in provincia di Lecco, insieme al gruppo che partecipa ad Alberi maestri: l’evento in prima nazionale che Michele Losi e Sofia Bolognini, regista di provata esperienza il primo e giovane, ispiratissima drammaturga la seconda, hanno presentato durante Il Giardino delle Esperidi, il Festival che ha salutato l’inizio dell’estate dipanandosi, durante i week-end, fino al 7 luglio. Il “campo base” della manifestazione era quassù, al termine del cammino rituale (sette chilometri e 400 metri di dislivello), che compiamo insieme alla nostra guida con tanto di suggestioni testuali in cuffia che ci aiutano a percepire, sulla falsariga di Jean Giono, le peculiarità dell’habitat e pregiati intermezzi d’espressione corporea sulle cascatelle. Fino alla corte di Campsirago, una frazione rinata grazie al volontariato artistico e ambientalista dopo lo spopolamento degli anni Cinquanta, pochissime case di roccia che si affacciano sopra una vista mozzafiato, delimitata dai grattacieli di Milano che di notte luccicano all’orizzonte.
Qui muoveva i primi passi, quindici anni fa, il Festival diretto proprio da Michele Losi che oggi (complice la residenza animata da Scarlattine Teatro, Pleiadi, Riserva Canini e Stradevarie) rappresenta un autorevole punto di riferimento sull’ecologia del teatro e le relazioni fra paesaggio, intervento creativo, partecipazione del pubblico. La conferma arriva dalle esperienze cui abbiamo preso parte, un sottoinsieme del programma che ha coinvolto settanta artisti spaziando fra azioni teatrali nel circondario, godibilissimi concerti d’estrazione meticcia ma anche raccolte di erbe selvatiche e “social dinner” che inducono il pubblico a sentirsi comunità. C’è capitato così di passare la notte tutt’insieme sotto una iurta, facendoci cullare dalle armoniche del Collettivo Amigdala che ha eseguito per sei ore, con cinque cicli di circa 45 minuti più le pause, il canone di Elementare: un flusso per voci a cappella (composto da Meike Clarelli e restituito da quest’ultima insieme a Elisabetta Dallargine, Vincenzo Destradis, Davide Fasulo, Fulvia Gasparini e Antonio Tavoni) che mescola risonanze gregoriane e finissimi andamenti sincopati. L’effetto, come spesso accade nei format immaginati da Federica Rocchi insieme al resto della formazione modenese, è profondamente immersivo, forse anche terapeutico. E l’epilogo di questa fatale alternanza fra sonno e veglia, quando albeggia, si sarebbe celebrato all’aperto, con il Monte Rosa negli occhi e le lenzuola chirografate nottetempo da Sara Garagnani a sventolare fra gli alberi.
Già, gli alberi. Sono loro i veri protagonisti del giardino ancestrale nel quale ci siamo introdotti. Un lampo d’espressività è quello di Silvia Girardi, veronese d’origine ma oggi a Milano dopo una lunga esperienza di studio a San Francisco, danzatrice, regista e attrice dal segno cronometrico, alimentata dalla spiritualità Yoga ma anche da fondamenti scientifici che chiamano in causa Charles Darwin e alludono alla ricerca di Stefano Mancuso. Il suo atto d’amore verso la famiglia vegetale ha preso vita sulla pedana grande di Campsirago, intorno alla quale vigilano frassini e querce, attoniti testimoni di un poetico assolo che ci aiuta a scoprire la parte senziente delle creature immobili, la punta delle radici che nel movimento della Girardi, meccanico e biologico insieme, acquistano un’irrefrenabile vitalità. Arriva il più delle volte dalle donne, del resto, il canto della dimensione naturale: un cammeo vagamente ovidiano è quello che ha proposto Marta Lucchini, facendosi scovare durante la sua trasfigurazione silvestre nelle campagne di Figina, dove l’azione corporea si tramuta in un vero e proprio ricongiungimento olistico con le matrici ambientali, alla ricerca degli equilibri possibili – e non convenzionali – del corpo nell’ecosistema. Poi, poco lontano, nell’aia di un villaggio contadino, l’imboscata che ha preparato il Teatro del Lemming per raccontare la madre di tutte le storie, quella di Ulisse che attraversa le acque, invade, depreda, sottomette altri popoli, fondando un modello identitario che oggi, al cospetto delle evidenti disuguaglianze, si mette finalmente in discussione.
Il loro è uno scuotimento etico ma allo stesso tempo effettivo, nel corpo a corpo fra attori e pubblico, reciprocamente necessari nella sarabanda che prende vita in questo campo di concentramento fra enigmatici sussurri, atti di violenza e possessioni da incubo, provocazioni sensoriali e segni di sfida che ci rivolgono gli otto interpreti, fino alla commovente riconciliazione finale. Impossibile chiamarsi fuori, lo sa bene il regista Massimo Munaro che dirige le operazioni: è un dramma di grande insegnamento, se la ragione non basta, attraverso lo choc emozionale circa la responsabilità verso l’altro, nell’epoca di Omero come in quella, tragicamente attuale, delle migrazioni forzate.
Ma nella nostra, personalissima esperienza al Giardino delle Esperidi ha trovato spazio anche il teatro di parola, nella splendida cornice della piazzetta di Ello, insieme a Luca Radaelli e Gabriele Vollaro: due attori generazionalmente distanti ma affiatatissimi sulla scena di Bartleby lo scrivano, il racconto sul filo dell’assurdo con cui Herman Melville sollevò a suo tempo, non senza polemiche, il tema della disobbedienza al pensiero unico del liberismo. Un contrappunto necessario, nel segno di una prosa equilibrata, che ci rammenta l’esigenza di rivedere nel profondo i nostri paradigmi di convivenza, riconoscere la diversità culturale – oltre a quella biologica – e riconciliare l’uomo con gli equilibri naturali di cui è custode.
Festival Il Giardino delle Esperidi, Campsirago Residenza, Colle Brianza (Lecco), dal 21 giugno al 7 luglio 2019. Per ulteriori informazioni: www.ilgiardinodelleesperidifestival.it .