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Donne del Sud – Trilogia


di Stefania Chinzari

 

Dopo la Milano da bere e il rampantismo, tra la polvere del Muro fatto a pezzi che ci illudeva sulla Storia e il futuro, i primi anni Novanta segnarono anche in Italia (accanto a molti percorsi di ricerca e di linguaggi davvero innovativi) il ritorno del teatro civile, il teatro dell'impegno, dell'indignazione. Il teatro che dava di nuovo voce e visibilità alle isole del malessere per appropriarsi ed esprimere tutte le istanze politiche del disagio: la malattia, il carcere, l'handicap divennero luoghi di riflessione e di denuncia. Tra i temi di questa nuova attenzione, soprattutto in Italia, c'era il Sud, con il suo impasto spesso fangoso di storia e illegalità, di trasformazione socio-economica e arcaismo radicato, di travolgente bellezza e insensato disastro.

Così, accanto alle esperienze con i malati di mente di Dario D'Ambrosi e gli attori segnati nel corpo e nell'anima di Pippo Delbono, insieme al canto libero degli attori-detenuti del Teatro della Fortezza nel carcere di Volterra e i racconti sui vinti di Ascanio Celestini, accanto all'oratoria civile del Vajont di Marco Paolini, in quelle stagioni andavano in scena tre testi di una autrice napoletana, Maria Pia Daniele. Erano Faide , scritto nel 1987, finalista al premio Giuseppe Fava del 1991 e poi allestito non solo in Italia (a Taormina Arte, a Prato, a Napoli…) ma anche negli Usa, dal Pirandello-Brecht Project nella traduzione inglese; Il mio giudice, un testo scritto quasi di getto, sull'onda appunto dell'indignazione e della commozione, protagonista negli anni alle Orestiadi di Gibellina, alle Ville Vesuviane, all'India di Roma, trasmesso più volte alla radio e tuttora nei cartelloni teatrali di diverse città italiane, con il sostegno di Don Ciotti e di Libera, ampiamente rappresentato anche all'estero, da Bonn alla Russia, adattato nel 2000 nella versione televisiva dal titolo La ragazza infame; e Cattive madri vincitore del premio Rai-Unesco Microfono di cristallo nella versione del radiodramma.

Il trittico è stato ora raccolto e pubblicato da La Mongolfiera, casa editrice significativamente collocata in un piccolo paese della Calabria ionica, nel volume dal titolo Donne del Sud – Trilogia e vogliamo pensare che non sia una banale coincidenza che se ne parli all'indomani del giuramento del nuovo presidente Trump e delle centinaia di migliaia di donne che hanno sfilato per le strade di tutta l'America, rivendicando diritti inalienabili e principi sempre meno popolari come l'uguaglianza o la solidarietà.

Eppure, nonostante i testi e la scrittura di Daniele siano fortemente politici, non avremmo visto nessuna delle sue “donne del Sud” a quelle manifestazioni. Non le tre sorelle di Faide, incastonate nel paesino della Locride di qualche decennio fa, imprigionate dalle leggi della vendetta incrociata; non le “cattive madri” tormentate e tormentanti inurbate nelle periferie di un Nord altrettanto deragliato; non la protagonista de Il mio giudice, la giovanissima collaboratrice di giustizia Rita Atria che si tolse la vita a soli 17 anni, una settimana dopo la morte del “suo” Borsellino. Madri, sorelle, figlie diversamente invischiate nella tela densa di una terra difficile che all'autrice ha dato i natali (è di Napoli) e che da sempre ritrae e racconta senza eroismi e senza pietismi, senza reticenze né paternalismo, scegliendo ora il registro alto della tragedia classica, ora i tono più leggeri del grottesco per rivelare la complessità di quelle vite, il peso di scelte assolute che centinaia di donne indubbiamente reali compiono ogni giorno, da decenni.


Per gentile concessione dell'Editore

Daniele non ci nega e non ci nasconde che le donne del Sud debbano pagare sempre un prezzo altissimo, che moltiplica le discriminazioni e amputa le possibilità di ribellione. Quando si cresce in una cultura impastata di disfunzioni socio-economiche e immobilismo, corruzione e crisi, esodo e inurbamento selvaggio, quando si respira solo l'aria emessa dalla criminalità organizzata e si agisce nel nome di codici arcaici e potentissimi, è normale che sulle donne gravino responsabilità enormi, a cominciare dal ruolo di perno della famiglia e di regolatrice delle pulsioni del maschio (marito o figlio che sia). Molte, come le sorelle-Elettra di Faide (il cui primo titolo era Kissaros, parola che in calabrese-grecanico vuol dire edera) assorbono quel familismo barbaro, assimilano e trasmettono, educando, l'omertà, la sete di vendetta, l'evaporazione dei sentimenti, stritolano come l'edera appunto, e scatenano reazioni distruttrici che non temono certo i confini regionali; basti pensare alla strage di Duisburg, in Germania, partita dal paesino della Locride San Luca, innescata da un movente tanto gratuito quanto irrilevante, che vide proprio le donne della cosca tragicamente coinvolte.

Ma molte altre donne, come la Antigone de Il mio giudice, lottano con coraggio per rinnegare i valori del clan e della morte e osare un'altra strada, quella della giustizia, della tolleranza, della libertà. Perché al Sud, nel nostro e in quello del mondo, è più difficile essere e crescere liberi. E per le donne di ogni sud è difficile il doppio.

Rita ci aveva provato: figlia di un boss della mafia, di quelli all'antica che non volevano immischiarsi con la droga, ucciso quando lei aveva solo undici anni, sorella di un ragazzo del clan morto ammazzato, vede in Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala, l'uomo-padre a cui confidarsi, affidarsi. Gli racconta quello che sa, entra nel programma dei testimoni di giustizia, la trasferiscono a Roma, in gran segreto, in una casa che il destino vuole a via Amelia, un nome così simile a quella via D'Amelio che rimarrà per sempre nella nostra memoria. Passa solo una settimana dalla strage che uccise il “suo” giudice quando Rita si toglie la vita. La madre Giovanna, per punirla di quel tradimento oltraggioso, prende a randellate la sua tomba: per vent'anni, la lapide di Rita non ha avuto né un nome né una fotografia. Una ragazza del Sud letteralmente cancellata da una donna del Sud.

Screziata di dialetto, la lingua dell'autrice, soprattutto in questo testo, è poetica e forte, scabra e asciutta, come certe pianure spazzate dai venti caldi: la virtù civile di Rita si contrappone alla legge del potere mafioso che lei disconosce, rifiuta e combatte. E nell'agone, è il coro delle donne a volerla indurre al silenzio, un coro colpevole, colluso, capeggiato da una madre muta che si nutre solo di gesti sanguinari e feroci, per rendere impossibile alcuna catarsi.

Nell'attesa che uno di questi testi prenda nuovamente la via del palcoscenico, il libro, presentato a Roma dal giornalista Andrea Purgatori e dallo scrittore Silvio Perrella, è una buona occasione per tornare a riflettere anche sul teatro e sulla forza che la parola teatrale mette in atto quando, tra cronaca e mito, diventa strumento fondante di civile presa di coscienza.

 

 

Donne del Sud – Trilogia

di Maria Pia Daniele

La Mongolfiere editrice, Doria di Cassano (Cosenza), 2016, pp. 199, euro 15.00