EditorialeIn itinereFocus Nuove arti visive e performative A sipario aperto LiberteatriContributiArchivioLinks
         
       
 

Hikikomori : una moderna tragedia di isolamento e solitudine

 

di Marco Fratoddi

 

Potrebbe sembrare un reduce del Vietnam, come quel Birdy di cui Alan Parker raccontava trent'anni fa la storia d'isolamento volontario all'interno del nido da cui immaginava, prima o poi, di volare via. Invece è un “hikikomori”, come si dice nel Giappone contemporaneo, vale a dire un adolescente che si chiama fuori dal mondo e concepisce nella sua cameretta un microcosmo basato sulle chat-line, i manga con la loro estetica vagamente aliena, le proprie fantasie ossessive. Un disadattato, insomma. È intorno ad un esponente di questa tipologia generazionale, sbocciata a Tokyo insieme alle culture digitali ma sempre più diffusa anche altrove, Italia compresa, che ruota la tragedia scritta da Katia Ippaso insieme a Marco Andreoli e presentata a dicembre sotto forma di studio al Teatro dell'Orologio di Roma. Attenzione però a fare di Hikikomori , come s'intitola appunto la pièce, un soggetto d'ispirazione soltanto sociologica, un viaggio fra le angosce dei giovani d'oggi che cercano rifugio dallo spaesamento globale. L'ingrediente c'è, insieme agli elementi che ci conducono nel disagio quotidiano di un ragazzo – interpretato senza un attimo di tregua dal talentuoso e giovanissimo Giulio Pranno – che ha smesso di andare a scuola, non si lava più, si è chiuso in un bunker insieme ai soldatini di quando era piccolo, ai fumetti che legge e rilegge, al giaciglio dal quale non vorrebbe alzarsi mai. Eppure qui si va oltre. L'indagine intorno alla quale ci convocano i due autori, infatti, è di tipo esistenziale, riguarda le strutture archetipiche della famiglia (il riferimento alle Metamorfosi  di Kafka è esplicito) e anche le violenze che imperversano fra coetanei con il tacito consenso degli adulti. Compare un fantasma nella giornata senza tempo del figlio ribelle – perché la scelta d'isolarsi comprende l'incapacità di presentarsi agli altri ma anche il coraggio di differenziarsi, di non stare al gioco – che scopriremo essere un avo soppresso in quello stesso ambito familiare proprio per il suo anticonformismo. Poi la madre che prova a scuotere il figlio mentre subisce le angherie del marito, assente e oppressivo, viene quasi da dire persecutorio nei confronti dell'intero nucleo. Sono le figure di un giallo d'interesse psichiatrico che si dipana in una scena pensata da Fabio Vitale come un ring al cui interno gli interpreti, vestiti da Roberto Conforti con gli abiti di una dimessa quotidianità, possono amarsi e farsi del male: vediamo la madre compiangere e odiare quel figlio incompiuto (“femminuccia!”, lo apostrofa più volte, quasi a sottolinearne la parzialità identitaria), accudirlo come se fosse già nella tomba celando a se stessa – la contraddizione si legge negli occhi dell'attrice Luisa Marzotto, disperata e ancillare allo stesso tempo – le ragioni di quella clausura. Poi l'antenato, preziosamente interpretato da Aldo De Martino a metà fra la macchietta napoletana e il teatro No, rivela tacitamente la verità fornendo al nipote una bicicletta rossa che gli permetterà di riprendere la sua strada. È una materia difficile quella che si maneggia: c'è da credere che Arturo Armone Caruso, regista e traduttore trapiantato a Parigi che si riaffaccia con efficacia grazie a questo lavoro sulla scena italiana, continuerà ad interrogarsi sugli equilibri del sistema che abbiamo difronte, sulla malattia che lo attanaglia. Un po' come il pubblico che ritrova alla distanza, quando lo choc è passato, i fili che ricongiungono quella visione alle dinamiche in cui siamo tutti noi fatalmente immersi.

 

foto di Manuela Giusto

 

Intervista a Katia Ippaso

di Letizia Bernazza

<<Ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro, e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro>>.

Le parole della scrittrice e attrice francese Colette sono risuonate dentro di me, dentro la mia anima, per l'intera durata di  Hikikomori . Ho capito dopo il perché. Lo spettacolo è soprattutto un dramma sulla solitudine. Una solitudine pungente che obbliga a “stare in disparte”, a “isolarsi”, secondo il significato stesso del termine “hikikomori” coniato dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki per identificare un fenomeno giovanile sviluppatosi in Giappone a partire dagli anni Ottanta e diffusosi progressivamente nell'ultimo decennio in Italia, negli Stati Uniti, in Germania e in Francia.

Soltanto che, a mio avviso,  Hikikomori   prima di essere lo specchio di un disagio che attanaglia i giovani è un tragedia familiare. L'apatia scolastica del protagonista, infatti, inizia dalle tensioni con i suoi genitori – un Padre violento e una Madre fragile, incapace di “proteggere fino in fondo” il proprio figlio. Allo stesso modo, la volontà del ragazzo di rinchiudersi progressivamente in una stanza disordinata - lontana dai luoghi abitati dagli altri componenti familiari – senza mangiare e senza badare alla sua pulizia personale, non è altro che l'indubbio rifiuto nei confronti di coloro che lo hanno messo al mondo. Una ribellione potente finalizzata all'azzeramento di qualsiasi relazione affettiva e, di conseguenza, alla totale inibizione di ogni tipo di rapporto sociale la cui soluzione naturale sembra essere il “distacco coatto” dal Mondo.

Ho voluto sviscerare con Katia Ippaso, autrice del testo insieme a Marco Andreoli, l'intimo significato della tessitura drammaturgica di  Hikikomori .

Come e perché è nato questo lavoro?

Hikikomori  fa parte di una trilogia composta anche da  Doll is mine  e  Evaporati . Volevo scrivere delle tragedie greche contemporanee ed ho usato un Giappone - metà reale e metà letterario - come scenario possibile di queste mie opere. Dico Giappone ma potrei dire Italia, Francia e Germania; il fatto è che in Giappone si trova un nome per tutte le cose e si tende a ritualizzare i momenti di crisi, i passaggi delicati dell'esistenza.  Doll is mine  è la storia della Figlia che vive in una Casa del Sonno e che assorbe tutti gli umori degli uomini che le dormono accanto ( ndr . questo testo ha ricevuto l''Aide à a la Creation da parte del Ministero della Cultura Francese ed è in fase d'allestimento a Lione).  Evaporati  è la storia del Padre, raccontata dopo la sua caduta.  Hikikomori , invece, è la storia narrata dal punto di vista del Figlio e della Madre. I componenti di questa famiglia e le loro vite sono raccontate in momenti diversi del tempo. A differenza di   Doll is mine  e  Evaporati , ho condiviso la stesura di  Hikikomori  con Marco Andreoli, autore che stimo molto. Anche lui era interessato a questo fenomeno, ci siamo confrontati a lungo e poi abbiamo sviluppato una storia che, pur avendo riferimenti alla contemporaneità, ha l'ambizione di raccontare movimenti dell'anima e relazioni familiari che escono fuori da ogni tracciato cronachistico o sociologico: la tragedia della notte, il desiderio di sparire e di rinascere con una nuova identità, il bisogno di isolarsi dal mondo per non dover essere schiacciati come scarafaggi.

La scelta del titolo, non è un rimando troppo diretto al manifestarsi di una condizione sociale giovanile quando, invece, nello sviluppo della messinscena c'è il chiaro riferimento a un ancestrale dramma familiare?

Abbiamo usato la parola  hikikomori  come guida e come traccia sonora. Come dicevo, i giapponesi hanno trovato un nome a questo fenomeno che in forme più nascoste sta diventando drammatico anche da noi. In Giappone i ragazzi che si ritirano da scuola e dal mondo sono due milioni, in Italia sono più di centomila.  Se ne parla sempre più spesso. Molti di questi casi sono da collegarsi a fenomeni di bullismo: i ragazzi più vulnerabili si chiudono a chiave nelle loro stanze perché qualcuno a scuola li ha umiliati, derisi e offesi. Detto questo, a questo punto del tempo il titolo potrebbe anche sparire e lasciare spazio a un'altra immagine-guida di carattere più universale. Mi viene in mente il titolo di quella meravigliosa opera filmica di Edgar Reitz, Heimat-Cronaca di una giovinezza . Forse potremmo semplicemente intitolare la nostra opera teatrale, da cui immaginiamo di realizzare presto una trasposizione cinematografica,  Hikikomori-Tragedia di una giovinezza o anche solo  La tragedia della giovinezza  (che poi mi fa venire  La tragedia dell'infanzia , meraviglioso libro di Alberto Savinio che considero tra le opere che più mi hanno ispirato). Si potrebbe trovare un titolo ancora migliore, che giri intorno a un'immagine e non a un concetto. Si accettano suggerimenti.

I brani de  La metamorfosi  di Kafka - che si intrecciano armonicamente nelle pieghe del testo - non sono la prova inconfutabile di quelle assordanti incomunicabilità e alienazioni che maturano in ambienti familiari chiusi e asfittici testimoniati dall'autore boemo di lingua tedesca e allegoricamente rappresentati dalla sua creatura Gregor Samsa?

L'idea di legare la stesura di  Hikikomori  al racconto di Kafka è venuta strada facendo: il Figlio chiuso dentro la Stanza è come Gregor Samsa che una mattina si sveglia e si trova trasformato in un immondo insetto. I brani de  La metamorfosi  letti dalla potente voce di Roberto Latini fanno da introduzione, guida tematica o commento a quanto va accadendo in scena, ma abbiamo scelto di introdurre una variazione significativa nel finale. Non volevamo semplicemente fare una critica della società e del sistema-famiglia. Volevamo far sì che si avesse compassione per Gregor, ma anche per la Madre - che nel nostro testo è l'unico essere umano a tentare un rapporto con il Figlio diventato agli occhi degli altri un appestato -  e naturalmente anche per il Nonno, che tanti anni prima era stato rinchiuso dentro quella stessa stanza perché considerato un pazzo di cui vergognarsi. Scrivendo  Hikikomori , abbiamo cercato di immedesimarci in tutti e tre i personaggi della pièce, con le loro crudeltà e le loro fragilità.  Sapendo che il mostro non è mai interamente fuori di noi.

<< L'enfer, c'est les autres >>,  dichiara Sartre nella sua celeberrima opera  A porte chiuse . Oltre a Kafka, quanto c'è in  Hikikomori   dell'amara constatazione del filosofo e scrittore francese secondo il quale gli esseri umani esistono, dolorosamente, soltanto attraverso i giudizi e le percezioni degli altri?

Per chi scrive, non esiste un discorso più importante di questo: il giudizio e la percezione degli altri. La drammaturgia contemporanea ha intrapreso strade diverse per rendere conto di questo “inferno”. Non esiste una strada meno impervia. La condizione umana è per sua natura impossibile e ci allaccia al filo di una condanna preventiva. Per opporre resistenza a tutto ciò, bisogna cercare di fare qualcosa, anche esponendosi al giudizio impietoso degli altri. Jane Austen diceva che si possono fare cose con le parole (“How to do things with words”).  Io ci credo abbastanza, ma non completamente.  Anche le parole hanno il loro limite, e il logos può essere una trappola dorata.

C'è una via d'uscita per il giovane protagonista? Il Nonno-fantasma (Aldo De Martino) sembra essere la sua unica guida verso il cambiamento. A chiusura dello spettacolo, la bicicletta rossa che il Vecchio gli offre è il mezzo-metafora per “andare verso il Mondo” e abbattere le barriere della solitudine?

Una regola elementare della scrittura teatrale ci dice che se viene introdotta una pistola nel primo atto, deve poter sparare nel terzo. E così, dal momento che avevamo introdotto una bicicletta nelle prime battute di Hikikomori , sapevamo che doveva riaffacciarsi nel finale per essere usata. Fin dall'inizio eravamo coscienti del fatto che volevamo liberare il ragazzo e per questo abbiamo scritto un finale diverso da quello di Kafka. Qui non è il Figlio a morire, ma sarà la Madre (interpretata in tutte le sue complesse sfaccettature da Luisa Marzotto) a sacrificarsi al posto suo.

Un'ultima curiosità: il protagonista di  Hikikomori  è un giovane attore non professionista (Giulio Pranno). Egli è sempre presente in scena con grande energia (forse anche troppa!), come lo avete selezionato?

Arturo Armone Caruso, regista che vive tra la Francia e l'Italia, ha fatto dei provini molto seri e impegnativi, ai quali ho anche parzialmente partecipato, assieme a Luisa Marzotto, che ha lavorato su parte con ognuno di questi ragazzi, senza risparmiarsi. Non era semplice trovare il ragazzo, anche perché alle audizioni si sono presentati altri attori bravissimi, usciti dalle migliori accademie di teatro. Diciamo che Giulio Pranno ha fatto un provino stupefacente. Quando l'abbiamo incontrato la prima volta, aveva ancora 17 anni e appena ha cominciato a recitare ci ha fatto venire in mente River Phoenix di  Belli e dannati . Forse non era il più maturo artisticamente, ma sicuramente portava in dote un'energia vitale, un'intelligenza scenica, un'asprezza e una drammatica dolcezza, che ci hanno semplicemente commosso.

 

 

 

foto di Manuela Giusto

 

Hikikomori

di Katia Ippaso e Marco Andreoli

con Luisa Marzotto, Aldo De Martino e Giulio Pranno

e con la voce di Roberto Latini

regia Arturo Armone Caruso

scene Fabio Vitale

costumi Roberto Conforti

produzione Associazione Culturale Progetto Goldstein/Ariel Produzioni in collaborazione con Officinema

Teatro dell'Orologio, Roma, 13-18 dicembre 2016