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“L'ispirazione”

di Liliana Paganini

L'ispirazione è un oggetto assai delicato che rischia sempre, sfuggendo dalle mani, di cadere e frantumarsi a terra. Me ne difendo facendo parlare scrittori e poeti, alcuni dei quali molto conosciuti. Inizio con un frammento del discorso pronunciato dalla poetessa polacca Wislava Szymborska, in occasione del conferimento del premio Nobel, il 7 dicembre del 1996: “ Ho accennato all'ispirazione. I poeti contemporanei rispondono in modo evasivo, quando gli si chiede cosa sia, e se esiste davvero. Non è che non abbiano mai conosciuto la grazia di questo movimento interno. Ma non è facile spiegare a qualcuno qualcosa che tu stesso non capisci. Anch'io, quando capita che mi chiedano qualcosa al riguardo, la prendo alla lontana. Comunque rispondo così: l'ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o, più in generale, degli artisti. C'è, c'è stato e ci sarà sempre un gruppo di persone visitate dall'ispirazione. E' composto da tutti coloro che hanno scelto consapevolmente il loro mestiere e lo svolgono con amore e fantasia. Possono essere medici, insegnanti, giardinieri e potrei enumerare centinaia di altri mestieri. Il loro lavoro diventa una ininterrotta avventura, finché cercano di scoprirvi nuove sfide. Problemi e difficoltà non soffocano mai la loro curiosità. Uno sciame di nuovi interrogativi emerge a ogni problema risolto. Qualunque cosa sia l'ispirazione, essa è nata dal riproporsi continuo della frase ‘Non so' ” (www.rable.it, 21/12/2011).

 

Aspettiamo e ricerchiamo l'ispirazione quando non sappiamo cosa scrivere o cosa dipingere o come dipingere, quando abbiamo bisogno di un aiuto, di un incipit o quando non sappiamo come risolvere un problema. Vorrei ricordare come la parola ispirazione derivi dalla parola latina “inspirare” e sia connessa secondo gli antichi greci al respiro di Dio. La Pizia, a Delfi, veniva ispirata per i suoi vaticini dai vapori della grotta sacra ad Apollo. L'ispirazione appartiene per tradizione, soprattutto alla religione o all'arte, sebbene la Szymborska la estenda a chiunque provi amore e passione nel proprio lavoro. Tornando all'antichità, ispiratori oltre ad Apollo erano anche Dioniso (da cui poi, come sappiamo, è nato il teatro), Afrodite ed Ermes, ma soprattutto le Muse: Clio, Thalia, Erato, Euterpe, Polyhymnia, Calliope, Terpsichore, Urania e Melpomene, d ivinità olimpiche guidate da Apollo. Così importanti per i greci che Omero inizia L' Iliade con “Cantami o Diva del Pelide Achille l'ira funesta ecc.” e l' Odissea con “Musa, quell'uom di multiforme ingegno dimmi, che molto errò, ecc.” Invocazioni queste alla Musa Calliope, ispiratrice della poesia epica.

L'ispirazione con l'avvento del Cristianesimo, diventa appannaggio direttamente di Dio. Dal XVIII secolo in poi alcuni tra i poeti, scrittori, artisti ricercheranno ispirazione anche attraverso le droghe, prima l'oppio, l'assenzio, poi anche altre droghe o l'alcool. (Coleridge, Blake, Keats…). Altri influenzati dalle teorie della nascente psicologia la cercheranno nell'inconscio, personale o collettivo, nei sogni, nelle sedute spiritiche o nella scrittura automatica. (Yeats, i surrealisti, ecc).

Kundera ci suggerisce che si può essere ispirati anche da altri artisti o da altre opere: “Tutte le grandi opere (e appunto perché grandi) hanno in sé una parte di non-compiuto. L'artista (Broch) ci ispira non solo per tutto quello che ha portato a termine, ma anche per tutte le mete che si era prefisso e che non è riuscito a raggiungere” (M. Kundera, L'arte del romanzo , Adelphi, Piccola Biblioteca 210, Milano 2005).

L'Ispirazione verrà chiamata da alcuni “genio interno al poeta”, da altri “istinto (i romantici, Emerson ecc.). E qualcuno la chiamerà “duende”.

Ne parla Federico Garcia Lorca ( Il Duende, teoria e gioco) : “ Chi si trova nella pelle di toro che si estende tra il Júcar, il Guadalete, il Sil o il Pisuerga (non voglio citare le onde di criniera di leone che agita il Plata), sente dire con una certa frequenza ‘Questo ha molto duende »'. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava ‘Hai voce, conosci gli stili, ma non ce la farai mai, perché non hai duende' . In tutta l'Andalusia, roccia di Jaén e conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo scopre appena compare con istinto efficace. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della debla , diceva: ‘I giorni che canto con duende non conosco rivali'; un giorno La Malena, la vecchia ballerina gitana, sentendo suonare da Brailowsky un frammento di Bach esclamò: ‘Olé! Questo sì che ha duende !' e si annoiò con Gluck, con Brahms e con Darius Milhaud. E Manuel Torres, l'uomo di maggior cultura nel sangue che io abbia conosciuto, ascoltando dallo stesso Falla il suo Notturno del Generalife , pronunciò questa splendida frase: ‘Tutto ciò che ha suoni neri ha duende'. Non c'è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell'arte. Suoni neri, disse il popolano spagnolo, e in ciò concordò con Goethe che, parlando di Paganini, ci fornisce la definizione del duende : ‘Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega'.

Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: ‘Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi'. Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto.

Questo ‘potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega' è, insomma, lo spirito della terra, lo stesso duende che abbracciò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende da lui inseguito era saltato dai misteriosi greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido strozzato della seguiriya di Silverio.

Non voglio che si confonda il duende col demonio teologico del dubbio contro il quale Lutero, a Norimberga, scagliò con sentimento bacchico una bottiglietta d'inchiostro, né col diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, né con la scimmia parlante che l'astuto turcimanno di Cervantes porta con sé nella commedia della gelosia e delle selve di Andalusia. No. Il duende di cui parlo - misterioso e trasalito - discende da quell'allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall'altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi. Ogni uomo, ogni artista, rievocherà Nietzsche; ogni scala che sale nella torre della propria perfezione è il prezzo della lotta che (l'artista) sostiene con un duende , non con un angelo, come si è detto, né con la sua musa. […] L'angelo guida e regala come San Raffaele, difende ed evita come San Michele e previene come San Gabriele. L'angelo abbaglia, ma vola oltre la testa dell'uomo, è al di sopra, dirama la sua grazia e l'uomo, senza sforzo alcuno, realizza la propria opera, la propria simpatia o la propria danza. L'angelo della via di Damasco, quello che entrò per le fessure di un balconcino di Assisi, o quello che segue i passi di Enrico Susson, ordina e non v'è modo di opporsi alla sua luce, perché agita le ali d'acciaio nell'ambiente del predestinato.

La musa detta e, in talune occasioni, soffia. Può abbastanza poco, perché è già lontana e così stanca (io l'ho vista due volte). […] I poeti di musa odono voci e non sanno dove, ma sono della musa che li nutre e, talvolta, se li beve. Come per Apollinaire, gran poeta distrutto dall'orribile musa con cui lo dipinse il divino angelico Rousseau. La musa sveglia l'intelligenza, reca paesaggio di colonne e falso sapore di lauro, e spesso l'intelligenza è nemica della poesia poiché imita troppo, poiché eleva il poeta su un trono di spighe acute e gli fa dimenticare che all'improvviso se lo possono mangiare le formiche o gli può cadere sul capo una grossa aragosta di arsenico, contro la quale nulla possono le muse che stanno nei monocoli o nel rosa di tiepida lacca del salotto. Angelo e musa vengono da fuori; l'angelo dà luce e la musa dà forme (da loro apprese Esiodo). Pane d'oro o piega di tuniche, il poeta riceve regole nel suo boschetto di alloro. Di contro, il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue. Respingere l'angelo e tirare un calcio alla musa. […] La vera lotta è quella con il duende . Si conoscono le vie per cercare Dio, dal rude modo dell'eremita a quello sottile del mistico. Con una torre come santa Teresa, o con tre vie come san Giovanni della Croce. […] Per cercare il duende non v'è mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che fa sì che Goya, maestro nei grigi, negli argenti e nei rosa della migliore pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni in orribili neri di bitume; […] I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, siache cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza l'arrivo del duende . Essi ingannano la gente e possono dare sensazioni di duende senza averlo, come vi ingannano tutti i giorni autori o pittori o stilisti letterari privi di duende ; basta, però, prestare un minimo di attenzione, e non lasciarsi guidare dall'indifferenza, per scoprire la trappola e metterli in fuga col loro rozzo artificio.

Una volta, la cantaora andalusa Pastora Pavón, ‘ La bambina dei pettini '', cupo genio ispanico, pari in capacità fantastica a Goya o a Rafael il Gallo , cantava in una taverna di Cadice. Giocava con la sua voce d'ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio, e se la intrecciava nella chioma o la bagnava nella manzanilla o la perdeva in gineprai oscuri e lontanissimi. Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori restavano

zitti. […] Pastora Pavón finì di cantare nel silenzio. Solo, e con sarcasmo, un uomo piccolino, di quegli ometti ballerini che escono all'improvviso dalle bottigliette di acquavite, disse con voce grave: ‘Viva Parigi!', come a dire: ‘Qui non ci interessano le capacità, né la tecnica, né la maestria. È altro ciò che ci interessa'. Allora La bambina dei pettini si alzò come una folle, gobba come una prefica medievale, trangugiò d'un sol sorso un gran bicchiere d'acquavite come fuoco, e si sedette a cantare senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende . Era riuscita a uccidere l'intera impalcatura della canzone per cedere il posto a un duende furioso e rovente, amico dei venti carichi di sabbia, che induceva gli ascoltatori a stracciarsi le vesti quasi al medesimo ritmo dei negri antillani del rito ammassati dinnanziall'immagine di Santa Barbara. La bambina dei pettini dovette squarciarsi la voce, perché sapeva che gli ascoltatori erano dei raffinati che non chiedevano forme, bensì midollo di forme, musica pura dal corpo leggero per potersi mantenere in aria. Dovette privarsi di facoltà e di sicurezze; ossia, allontanare la sua musa e rimanere indifesa, affinché il suo duende venisse e si degnasse di lottare a viva forza. E come cantò! La sua voce non giocava più, era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità, e si apriva come una mano di dieci dita sui piedi inchiodati, ma pieni di tempesta, di un Cristo di Juan de Juni. Il sopraggiungere del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite, con una qualità di rosa appena creata, di miracolo, che produce un entusiasmo quasi religioso.

In tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, il sopraggiungere del duende viene salutato con energici ‘Allah! Allah!', «Dio! Dio!», tanto vicini all'« Olé! » della corrida che chissà che non siano la stessa cosa; e in tutti i canti della Spagna meridionale l'apparizione del duende è seguita da sincere grida di ‘ Viva Dios!' , profondo, umano, tenero grido di una comunicazione con Dio per mezzo dei cinque sensi, grazie al duende che agita la voce e il corpo della ballerina, evasione poetica e reale da questo mondo. […] Naturalmente, quando si raggiunge tale evasione ciascuno ne avverte gli effetti: l'iniziato, vedendo come lo stile vince una materia povera, e l'ignorante, in quel ‘non so che' di un'emozione autentica. Anni fa, in un concorso di ballo a Jerez de la Frontera, una vecchia di ottant'anni in gara con donne splendide e ragazze con un vitino di vespa, si portò via il premio per il semplice fatto di aver sollevato le braccia, eretto il capo e dato un colpo con il piede sul tabladillo ; ma a quella riunione di muse e di angeli che stava avendo luogo, bellezze di forma e bellezze di sorriso, non poteva che vincere, e vinse, quel duende moribondo che trascinava per terra le sue ali di coltelli ossidati.

Il duende può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità, com'è naturale, è nella musica, nella danza e nella poesia recitata, giacché queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso presente. Spesso il duende di un musicista passa al duende dell'interprete, altre volte, quando il musicista o il poeta non sono tali, il duende dell'interprete, e ciò è interessante, crea una nuova meraviglia che, all'apparenza, altro non è se non la forma primitiva. È il caso della induendata Eleonora Duse, la quale cercava opere fallite per portarle al successo grazie alla sua capacità inventiva, o il caso di Paganini, riferito da Goethe, che sapeva trarre melodie profonde da autentiche volgarità, o il caso di una deliziosa ragazza di Puerto de Santa María, che io vidi cantare e ballare l'orribile canzonetta italiana Ohi Marí! , con dei ritmi e dei silenzi e un'intenzione che trasformavano la paccottiglia italiana in un duro, eretto serpente d'oro. Ciò che in realtà avveniva in quei casi era un qualcosa di nuovo che nulla aveva a vedere con quanto esisteva prima; veniva immesso sangue vivo e scienza in corpi vuoti d'ogni espressione. Tutte le arti, come pure i paesi, sono capaci di duende , di angelo e di musa; e se la Germania, salvo eccezioni, ha musa e l'Italia un angelo permanente, la Spagna è in tutti i tempi mossa dal duende , come paese di musica e danze millenarie, dove il duende spreme limoni all'alba, e come paese di morte, come paese aperto alla morte. In tutti i paesi la morte è una fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio”. (www.antonio gramsci.com/garcia-lorca).

La musica, il canto, il ballo, il ritmo. E a proposito del ritmo, ecco un brano, da un intervista su the Paris Review a Philip Levine, poeta di Detroit, conosciuto per le sue poesie sulla classe operaia.  “Sono d'accordo con Robert Hass quando dice che il ritmo, in poesia, costituisce un terreno fertile che apre le porte dell'inconscio. Il ritmo è profondo e ci tocca in modo misterioso. Sappiamo che il linguaggio usato ritmicamente ha il potere di deliziarci, di sconvolgerci, di esaltarci. E' stato proprio questo linguaggio ritmico che all'inizio mi ha interessato. Non l'ho incontrato subito nella poesia, ma semplicemente nel parlare, nella preghiera o nella predica. Questo mi ha spinto a volerlo creare” (www.theparisreview.org).

 

Sempre a proposito del ritmo e della poesia, alcune pagine di Giovanni Giudici dal libro La Dama non cercata, capitolo Come una poesia si costruisce : “ La cosa chiamata poesia è il titolo che, io e il mio amico Vladimír Mikeš, decidemmo di dare una quindicina di anni fa, a una scelta di versi di Jirí Orten, un poeta cèco morto nel 1941 a soli ventidue anni, che insieme avevamo tradotto per l'editore Einaudi. E ora non resisto alla tentazione di riportare qui per intero la breve poesia da cui quel titolo fu preso.

La cosa chiamata poesia

quella vorresti fare?

In solitudine singhiozzare

e tanto volere bene

 

Senti? E' il suo ticchettìo

Così disperato giocare

La cosa chiamata poesia

quella vorresti fare?

Forse lo sai che spesso

la parola è troppo sciocca

Ma Dio ti chiude la bocca

e altro non ti può dare

La cosa chiamata poesia

quella vorresti fare?

All'epoca, il 1968, in cui traducemmo con Mikeš questa e molte altre poesie di Orten, non avevo posto attenzione a due particolari che facevano e soprattutto fanno oggi, per me, di questo testo quasi un concentrato di arte poetica; uno di essi […] è la definizione della poesia come cosa ; l'altra è il suo primo annunciarsi con un ticchettìo […] quel “ticchettìo” del giovane Orten, qualche anno dopo averlo tradotto, si affacciò anche alle soglie della mia coscienza. Una sera, appena andato a letto e spenta la luce nella speranza di un rapido addormentarmi, fui sorpreso da un pensiero piuttosto strano: come si chiamavano, quali facce avevano, i miei compagni di collegio – il Pontificio Collegio Pio X tenuto a Roma nel quartiere di San Lorenzo dai Padri Giuseppini – […] Perché non cercare di ricordarmeli? Anche con questi giochi mentali si può, come sappiamo, combattere una piccola insonnia… Ed ecco che, di ricordarmeli, non ebbi ben presto più bisogno: erano loro, i loro talvolta buffi cognomi troppo adulti per essere cognomi di bambini, che emergevano come bollicine d'aria da un mare o da uno stagno o da un vaso di pesci rossi, recando in superficie ciascuno anche una faccia, una figura, che gli erano corrisposte; cognomi e facce che marciavano in fila per tre, minuscoli soldati, emboli benigni all'assalto nei capillari del mio encefalo dei silenziosi circuiti del ricordo, muto infantile drappello che faceva irruzione nell'inerme e sonora fortezza del mio vuoto. Il loro passo di piccoli conquistatori segnava un ritmo, aereo e insieme serrato, il ritmo giambico che è dei battiti del cuore e dei movimenti dell'amplesso, (una misura prosodica, cioè, preesistente nella nostra natura e fisiologia) […] I visi, i cognomi, l'immagine che d'ognuno dei miei compagni, bambini come me, avevo coltivato a quel tempo nelle mie fantasie di condiscepolo, gli ‘zinali' o grembiuli neri che portavamo, la rete di ferro che divideva il cortile della nostra ricreazione dall'irraggiungibile mondo di fuori (l'umile e prospiciente e popolosa via dei Volsci), alcuni sommersi dimenticati e ora ritornanti episodi della nostra piccola vita di allora volavano su quel ritmo, le parole stesse cercavano la rima, da questa e con questa suscitando altre parole e immagini: da ‘diverso' passavo a ‘perso', da ìcollegio' passavo a ‘privilegio' […]

In quel pontificio collegio

Di quell'Italia fascista

Ammesso per privilegio

Della graziosa regina

Dove patii la prima

Volta il parlare diverso

E la mancanza del mare

Sentendomi chiuso e perso…

[…] Te Deum non è un'indegna poesia: ma a chi ne andrà il merito? Sì, la voce che ‘ditta dentro' è diventata un luogo comune: ma io non feci altro in quel caso che trascriverla col massimo scrupolo di fedeltà, meravigliato e felice della chiarezza con cui mi parlava, della lucidità delle sue formulazioni che mi parve assai simile alla lucidità (una volta o due sperimentata, per forza maggiore) che ci viene da una fiala di morfina. Il che autorizzerebbe a supporre che anche la poesia si manifesti, come la lucidità indotta dal farmaco, attraverso uno stato di alterazione ‘positiva' della mente, talvolta preceduta nel poeta da una condizione di inspiegabile disagio […] Ma quello di Te Deum non è che un esempio, fondato per giunta su un caso abbastanza eccezionale e fortunato, di come la nascita del poema tenda, secondo me, a prescindere (anzi: a fortemente prescindere) dalle intenzioni coscienti dell'autore: tanto da indurmi a pensare che la sua significatività (dal punto di vista poetico) sia in ragione inversa del carico di intenzione o intenzionalità che l'accompagna. […] Un'altra sera – sul finire dell'anno, mi sembra, 1961, – annotai su una delle tante agende che per antica abitudine riservo a questo scopo alcune righe scritte quasi senza riflettere: forse per fissare un generico pensiero, lo stato d'animo di un momento… Avevo anche una certa fretta, mi ricordo, dovevo uscire; forse, cenando, avevo bevuto un bicchiere di vino in più. Non ritornai su quella annotazione, le agende hanno di bello che ogni giorno si volta pagina e quel che si è scritto oggi può anche capitare di non rileggerlo per mesi o addirittura mai. Passarono diversi mesi e, quando mi ritrovai casualmente su quelle righe, fui quasi sorpreso di averle scritte… Sorpreso, dico, perché nel ricopiarle a macchina comincia ad accorgermi che si trattava già di una poesia, senza bisogno di aggiustamenti né di varianti. O quasi. Infatti, di lì a qualche anno, l'avrei inclusa nel mio libro La vita in versi , intitolandola con le prime tre parole del suo primo verso:

Con tutta semplicità devo dire

che un tempo sembrava lontano

il tempo in cui morire.

Ora non è più un pensiero strano.

Ora è sempre lontano (almeno spero) ma

posso già prefigurarmelo. Ho l'età

in cui dovrei fare ciò che volevo

fare da grande e ancora non l'ho deciso.

Faccio quello che faccio, altra scelta non ci sarà:

leggo di miei coetanei che muoiono all'improvviso.

Ma anche questo esempio, accoppiato al precedente, potrebbe far pensare a una mia concezione della poesia come facoltà medianica, una specie di canale diretto col mondo del mistero o, più banalmente, dell'inconscio; e, parallelamente, a una mia idea […] quasi strumentale del poeta, poeta-sciamano, poeta-profeta, poeta- voyant e forse anche un po' voyeur … Non nascondo che un po' mi piacerebbe, su questa idea, soffermarmici, indugiarvi: e perché no? E perché non pensare a un mondo retrostante o sovrastante o sottostante a questo che ci appare, a un mondo di pure e nobili forme prigioniere sotto la scorza dell'abitudine e della volgarità pubblicana e pronte a sgusciar via, a librarsi, a volare per lo spessore minimo del foglio sul quale le trascriviamo?”(G. Giudici, La dama non cercata , Mondadori, Milano 1985).

Su questo tema lascio parlare Milan Kundera che ne L'arte del romanzo cita una quartina di Jan Skàcel. In un ciclo di cento quartine che, con semplicità quasi infantile, indagano su quanto esiste di più grave e di più complesso, il grande poeta ceco scrive:

“I poeti non inventano le poesie

la poesia è in qualche posto là dietro

è là da moltissimo tempo

il poeta non fa che scoprirla.

 

Scrivere significa dunque per il poeta abbattere un muro dietro il quale si nasconde nell'ombra qualcosa di immutabile (‘la poesia'). Ecco perché (grazie a questo disvelamento sorprendente e improvviso) ‘la poesia' ci si offre innanzi tutto come abbagliamento” ( M. Kundera, L'arte del romanzo , Adelphi).

Ora un'intervista, da the Paris Review , a Jim Harrison, autore di romanzi e sceneggiature di film conosciuti come: Wolf, Revenge ecc. […] “Le mie ore migliori per scrivere sono tra le due e le quattro del pomeriggio e dalle undici all'una di notte. Non so perché queste ore siano giuste per me, forse corrispondono a un mio ritmo interno. Scrivo sempre un po' alla volta. Si scrive quando è pronto per essere scritto. Ho provato diverse volte a iniziare dei romanzi che ancora non c'erano. Ed è stato terribilmente scoraggiante e angosciante. In quei casi salto in auto e percorro anche settemila miglia in giro per l'America. La gestazione di un romanzo per lei è un processo cosciente? Per lo più. Anche se le cose migliori sembrano arrivare in modo inconscio, come se i tuoi sogni inventassero persone che non conosci “ (www.theparisreview.org).

Voglio citare ora, in un piccolo brano, uno psicanalista americano New Age che ha scritto un intero libro sull'ispirazione: “M olti anni fa credevo in ciò che viene definito il “blocco dello scrittore”, ovvero no stato in cui le idee si rifiutavano semplicemente di fluire. Oggi ho un'opinione diversa: so che in qualche modo Dio scrive tutti i libri e costruisce tutti i ponti. Oggi, quando scrivo, aspetto che le idee scorrano attraverso di me per poi confluire nelle pagine. Ho la sensazione di essere in uno stato di sintonia vibrazionale con le idee che vogliono essere espresse per mezzo delle parole che scrivo; di conseguenza, so che si tratta di idee per le quali è giunto il momento: sono in sintonia con me qui e adesso, e non possono essere fermate. Mi domando: “Da dove viene realmente tutto quello che compare su questi fogli?” e so che non mi appartiene. Le parole scorrono dallo Spirito e si manifestano fisicamente perché io mi trasformo in un intermediario disposto a trascriverle su fogli di carta che alla fine comporranno un libro. Mi aspetto che queste idee siano qui e so che non possono essere fermate. Sono seduto qui, in uno stato di totale ammirazione, amore e gratitudine per il fatto di essere usato in una maniera talmente inspirata… e proprio mentre scrivo sul tema dell'ispirazione, figuratevi!” ( Wayne W. Dyer, La voce dell'ispirazione , Tea pratica, Milano 2010).

Ora torno a Kundera al suo L'arte del romanzo : “ Quando Tolstoj delineò la prima versione di Anna Karenina , Anna era una donna assai antipatica e la sua tragica fine era pienamente giustificata e meritata. La versione definitiva del romanzo è ben diversa, ma io non credo che Tolstoj avesse cambiato le sue idee morali: direi piuttosto che, durante la stesura del romanzo, egli ascoltò una voce che non era quella delle sue convinzioni morali personali. Ascoltava quella che mi piacerebbe chiamare la saggezza del romanzo. Tutti i veri romanzieri prestano orecchio a questa saggezza sovrapersonale, e ciò spiega come mai i grandi romanzi siano sempre un po' più intelligenti dei loro autori. I romanzieri che sono più intelligenti delle loro opere dovrebbero cambiare mestiere. Ma cos'è questa saggezza, che cos'è il romanzo? Dice un bellissimo proverbio ebraico: L'uomo pensa, Dio ride . […] L'arte ispirata dalla risata di Dio non dipende, per sua essenza, dalle certezze ideologiche, ma anzi le contraddice. Come Penelope, essa disfa, nel corso della notte, la trama che teologi, filosofi, scienziati, hanno tessuto durante il giorno” ( Milan Kundera, L'arte del romanzo , Adelphi).

Passerei ora a uno scrittore e sceneggiatore di fantascienza, esponente del filone cyberpunk: William Gibson, citando una sua intervista:”Inizio un romanzo con una frase d'apertura. Salvo una eccezione, non l'ho mai cambiata. Lei non prevede nulla oltre questa frase? Non inizio un romanzo con una lista della spesa. La mia lista della spesa si forma mentre lo scrivo. E' come quella storiella sul liutaio al quale viene chiesto come costruisce un violino e risponde che comincia con un pezzo di legno e rimuove tutto quel che non è un violino. Questo è quel che faccio quando scrivo, salvo che simultaneamente creo il legno e lo vado scavando. Edward Morgan Foster sosteneva che uno scrittore che ha il pieno controllo dei suoi personaggi non ha ancora iniziato a scrivere” (www.theparisreview.org).

Il tema del controllo sul personaggio è un tema centrale della letteratura, lo troviamo già nel Don Chisciotte , ma a questo proposito vorrei leggervi una breve favola di Robert Louis Stevenson, che fa incontrare fuori dal romanzo L'Isola del Tesoro due dei personaggi principali: “Dopo il XXXII CAPITOLO de L'Isola del Tesoro , due dei fantocci, usciti a far due passi e una pipatina prima della ripresa del lavoro, si incontrarono in luogo aperto, non lontano dal racconto.

– Buondì, Capitano, – disse il primo, con un saluto alla militare e con espressione radiosa.

– Ah, Silver! – borbottò l'altro. – Sei su una brutta strada, Silver.

– Suvvia, Capitano Smollett, – protestò Silver, – il servizio è il servizio, lo so, e nessuno meglio di me. Ma siamo fuori servizio, adesso. E io non vedo proprio che bisogno ci sia di ostinarvi a fare la morale anche qui.

– Sei uno sfacciato mascalzone, brav'uomo, ecco che cosa sei – disse il Capitano.

– Ma no, ma no, Capitano, siate giusto, – ribatté l'altro. – Non c'è proprio bisogno di sdegnarsi davvero con me. Io sono solo un personaggio in un racconto di mare. Non esisto in realtà.

– Beh, se è per questo, – dice il Capitano, – non esisto neanch'io, e una cosa può compensare l'altra.

– Non vorrei avere l'aria di mettere limiti agli argomenti di uno dei personaggi ‘buoni', – replicò Silver. – Ma in questa storia, io, sono il 'cattivo'; e parlando da uomo di mare a uomo di mare, quello che voglio sapere è questo: quali sono i rischi?

– Non ti hanno mai insegnato il catechismo? – disse il Capitano. – Non sai che esiste una cosa che si chiama Autore?

– Una cosa che si chiama Autore? – rispose John, sarcastico. – E chi meglio di me? Il punto si è che, se l'Autore ha fatto voi, ha fatto Long John, e ha fatto Hands, e Pew, e George Merry… non che George conti molto, perché è poco più di un nome. E ha fatto Flint, quel poco che se ne vede; e ha fatto questo tale ammutinamento, su cui la mettete tanto dura; e la pallottola che ha colpito Tom Redruth, e… Beh, se è questo, un Autore, meglio Pew!

– Non credi in una condizione futura? – disse Smollett. – Credi che nulla esista, all'infuori delle cartelle di questo racconto?

– Su tale punto, non ne so un gran che, – disse Silver; – e non vedo che cosa c'entri, comunque. So soltanto che, se quella cosa che si chiama Autore esiste, sono io il suo personaggio favorito. Mi fa di molti nodi meglio che non voi: di molti nodi. E si compiace, a farmi. Per lo più mi tiene sopra coperta di continuo, con la stampella e tutto; e lascia voi ad ammuffire nel fortino, dove nessuno può vedervi… e nemmeno ci tiene a vedervi, state pure tranquillo! Se un Autore esiste, egli è dalla mia parte, state tranquillo!”. (Robert Luis Stevenson, I personaggi del racconto pgg. 1039- 1040, Racconti e romanzi brevi, U. Mursia & C, Milano 1969.)

Ad apertura del XX secolo Strindberg propone il dramma del sogno, che tanto interessò Artaud e che è stato una vera bibbia per Bergman. Le forme del sogno che s'inseguono, si scindono, si ricompongono, in un fondo doloroso che sempre ci accompagna. Il sogno diventa protagonista nelle ricerche della nascente psicanalisi che, naturalmente, influenza tra le arti, anche la letteratura. Ma sentiamo ancora una volta Kundera: “La narrazione onirica; diciamo piuttosto: l'immaginazione, che, affrancata dal controllo della ragione e dall'assillo della verosimiglianza, penetra in paesaggi inaccessibili alla riflessione razionale. Il sogno è soltanto il modello di questa specie di questa specie d'immaginazione, che personalmente considero la più grande conquista dell'arte moderna. Ma come può il romanzo, che dev'essere, per definizione, un esame lucido dell'esistenza, accogliere l'immaginazione incontrollata ? Come è possibile unire elementi così eterogenei? Ci vuole una vera alchimia! Credo che il primo che abbia pensato a questa alchimia sia stato Novalis. Nel primo tomo del suo romanzo Heinrich von Ofterdingen , Novalis ha inserito tre grandi sogni. Non si tratta di un imitazione “realistica” dei sogni come se ne trovano in Tolstoj o in Thomas Mann. Si tratta di una grande poesia che si ispira alla ‘tecnica immaginativa' propria del sogno. Novalis, però, non era soddisfatto. Gli sembrava che quei sogni fossero come tre isole nel corpo del romanzo. Voleva dunque andare oltre e scrivere il secondo tomo del romanzo come una narrazione in cui sogno e realtà fossero legati, mescolati in modo tale da non poterli più distinguere. Ma questo secondo tomo non lo scrisse mai. Ci ha soltanto lasciato degli appunti i cui descrive la sua intenzione estetica. E questa intenzione fu realizzata, centoventi anni dopo, da Franz Kafka. I romanzi di Kafka sono appunto la fusione totale fra sogno e realtà. A un tempo lo sguardo più lucido sul mondo moderno e l'immaginazione più sfrenata. […] Ovviamente, sarebbe ridicolo volerlo imitare. Ma come Kafka (e come Novalis) io provo questo desiderio di far entrare il sogno, l'immaginazione che è propria del sogno, nel mio romanzo. Il mio modo di farlo non è una “fusione tra sogno e realtà”, ma un confronto polifonico. Il racconto ‘onirico' è una delle linee del contrappunto” (Milan Kundera, L'arte del romanzo , Adelphi).

 

Diverso è il modo in cui i sogni entrano nell'universo di Ionesco, che in un'intervista per the Paris Review , ci racconta il suo metodo di scrittura: “Lavoro la mattina, mi accomodo nella mia poltrona di fronte alla mia segretaria. Parlo lentamente e lei trascrive. Lascio che i personaggi, le idee, emergano da me come se stessi sognando. Uso sempre i ricordi dei sogni della notte precedente. I sogni per me sono realtà più profonde. Quello che crei sognando è vero, perché prodotto dalla natura e la natura non può mentire. Non c'è nulla da dimostrare c'è solo da inventare. Io lascio che le parole e le immagini emergano attraverso di me. Per 25 anni ho scritto a mano, ma ora mi è impossibile, le mie mani tremano troppo e sono troppo nervoso. Così nervoso in effetti, che ucciderei i miei personaggi immediatamente. Attraverso la dettatura io dono loro la possibilità di vivere e di crescere” (www.theparisreview.org).

Freud si spinge a psicanalizzare anche personaggi letterari e teatrali come Amleto di Shakespeare e il protagonista de La Gradiva di Jensen. Pirandello, studia in Germania e ha lavorato molto, come sappiamo, sul rapporto personaggi- autore, cito un brano da “ La tragedia di un personaggio ” che scopertamente anticipa I sei personaggi in cerca d'autore :

“ Un lungo romanzo inviatomi in dono, e che aspettava da più di un mese d'esser letto, mi tenne sveglio fino alle tre del mattino per le tante considerazioni che mi suggerì un personaggio di esso, l'unico vivo tra molte ombre vane. Rappresentava un pover uomo, un certo dottor Fileno, che credeva di aver trovato il più efficace rimedio a ogni sorta di mali, una ricetta infallibile per consolar se stesso e tutti gli uomini d'ogni pubblica o privata calamità. Veramente, più che rimedio o ricetta, era un metodo, questo del dottor Fileno, che consisteva nel leggere da mane a sera libri di storia e nel vedere nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato negli archivi del passato. […] Durante la lettura del romanzo m'era apparso manifesto che l'autore, tutto inteso ad annodare artificiosamente una delle trame più solite, non aveva saputo assumere intera coscienza di questo personaggio, il quale, contenendo in sé, esso solo, il germe d'una vera e propria creazione, era riuscito ad un certo punto a prendere la mano all'autore e a stagliarsi per un lungo tratto con vigoroso rilievo su i comunissimi casi narrati e rappresentati; poi, all'improvviso, sformato e immiserito, s'era lasciato piegare e adattare alle esigenze d'una falsa e sciocca soluzione. Ero rimasto a lungo, nel silenzio della notte, con l'immagine di questo personaggio davanti agli occhi, a fantasticare. Peccato! C'era tanta materia in esso, da trarne fuori un capolavoro! […] Ebbene, quella mattina, entrando tardi nello scrittojo, vi trovai un insolito scompiglio, perché quel dottor Fileno s'era già cacciato in mezzo ai miei personaggi aspettanti, i quali, adirati e indispettiti, gli erano saltati addosso e cercavano di cacciarlo via, di strapparlo indietro.

– Ohé! – gridai. – Signori miei, che modo è codesto? Dottor Fileno, io ho già sprecato con lei troppo tempo. Che vuole da me? Lei non m'appartiene. Mi lasci attendere in pace adesso a' miei personaggi, e se ne vada.

Una così intensa e disperata angoscia si dipinse sul volto del dottor Fileno, che subito tutti quegli altri (i miei personaggi che ancora stavano a trattenerlo) impallidirono mortificati e si ritrassero. – Non mi scacci, per carità, non mi scacci! Mi accordi cinque soli minuti d'udienza, con sopportazione di questi signori, e si lasci persuadere per carità!

Perplesso e pur compreso di pietà, gli domandai: – Ma persuadere di che? Sono persuasissimo che lei, caro dottore, meritava di capitare in migliori mani. Ma che cosa vuole ch'io le faccia? Mi son doluto già molto della sua sorte; ora basta.

– Basta? Ah, no, perdio! – scattò il dottor Fileno con un fremito d'indignazione per tutta la persona. – Lei dice così perché non son cosa sua! La sua noncuranza, il suo disprezzo mi sarebbero, creda, assai meno crudeli, che codesta passiva commiserazione, indegna d'un artista, mi scusi! Nessuno può sapere meglio di lei, che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé quest'attività creatrice che ha sede nello spirito dell'uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d'una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era Don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l'eternità” (L. Pirandello, Novelle per un anno , La tragedia di un personaggio , Mondadori I Meridiani, Milano 1990).

 

Vorrei concludere con Ionesco, ormai vecchio e deluso dal mondo, che ha perso l'ispirazione nella letteratura, ma la ritrova nella pittura: ”Per esistere, dunque, non mi resta altro che la pittura. Se cessassi di dipingere, sarei del tutto un disperato. I colori, e nient'altro che i colori, sono il solo linguaggio che possa parlare, i colori mi dicono qualcosa. Essi sono ancora viventi, da quando per me le parole hanno perduto senso, valore, ogni espressione. I colori sono per me ancora di questo mondo; essi cantano, sono di questo mondo e sembra che mi congiungano all'Altro Mondo. Ritrovo in essi ciò che la parola ha perduto. Essi sono la parola: il disegno sì, ma soprattutto il colore è parola, linguaggio, comunicazione, vita, ciò che mi può congiungere al resto, all'universo” (E. Ionesco, La quête intermittente , Gallimard, Paris 1987).

Non pretendo di aver esaurito l'argomento, con questa mia piccola antologia. Moltissimo ci sarebbe ancora da dire e tanti autori ancora da citare. Spero tuttavia di aver sollecitato interesse per un aspetto misterioso e fantastico della creazione artistica.

 

Aprile 2014