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Lehman Trilogy

 

di Stefania Chinzari

 

In principio fu il cotone. Un minuscolo santuario all'oro bianco dell'Alabama aperto sulla via principale di Montgomery. Aperto sempre, tranne di sabato perché è Shabbat, ma soprattutto di domenica, così i negri, di ritorno dalla messa, si fermano, entrano e comprano. In principio fu il cotone. Corsetti, cappelli, tele, metri e metri di chintz, denim, piquet… Sul negozio, la piccola insegna recita: Henry Lehman.

La saga della famiglia che ha determinato il ritmo della finanza mondiale, il passo di danza del capitalismo occidentale, la sarabanda travolgente della più grave crisi economica di tutti i tempi cominciò nel profondo Sud americano grazie a quel giovane ebreo di Rimpar, Baviera, sbarcato a New York l'11 settembre 1844, presto seguito dai due fratelli minori, Emanuel, dirompente e volitivo, “il braccio”, e Meyer detto “Bulbe”, patata, perché, liscio come il tubero e apparentemente innocuo, mediava tra il braccio e la mente per condurre il terzetto là dove il suo innegabile fiuto gli suggeriva di andare.

 

È arrivato anche al Teatro Argentina di Roma Lehman Trilogy di Luca Ronconi, tratto dal fluviale testo di Stefano Massini, premiato e richiestissimo autore-regista fiorentino, ormai direttore del Piccolo di Milano dove ha sostituito proprio il grande regista scomparso lo scorso anno. Un sodalizio che risale ai tempi di uno stage al Maggio Fiorentino di Massini, quando era stato proprio Ronconi a spronarlo a scrivere per il teatro. Il destino ha voluto che proprio con la regia di questo testo, pubblicato in Italia da Einaudi e già internazionalmente riconosciuto (è stato tradotto in 14 lingue, ha debuttato prima a Parigi che in Italia, il regista Sam Mendes sta per allestirlo negli Usa), Ronconi si sia congedato dalle scene e dalla vita.

Uno spettacolo-testamento, dunque, con il peso e la valenza di qualcosa che segna un passaggio conclusivo e consegna al pubblico vastissimo dei suoi ammiratori un corpus tanto eccezionale quanto ormai definitivo. Anche il successo di pubblico dello spettacolo, che ora a Roma, come già a Milano (dove tornerà dal 3 gennaio) e Torino, registra applausi a scena aperta e il tutto esaurito (sia nella filata di 5 ore e mezza dei fine settimana che nei due spettacoli separati, in scena in sere diverse) conferma che Ronconi e la Trilogia erano destinati ad incontrarsi. Il regista, ormai dai tempi del Pasticciaccio, dei  Karamazov o di  Pornografia era sempre più attratto da testi dove si alternano prima e terza persona e il continuo oscillare tra dentro e fuori, dalla sfida a trovare la stretta via percorribile e di-mostrabile tra onniscienza del racconto e identità dei personaggi. Ultimamente, poi, intensa si era fatta l'indagine su due tra i temi più assordanti e misconosciuti della contemporaneità, la finanza e il denaro, al punto da chiedere un testo da mettere in scena a Giorgio Ruffolo ( Lo specchio del diavolo) e Barrow ( Infinities) , oltre alle regie di Broch e Brecht.

Dal canto suo, Massini ha studiato da archeologo, ha frequentato le scuole cattoliche ma anche la sinagoga e scandaglia il presente per denunciarne con la forza di una narrazione onirica ed epica le incongruenze, quando non gli orrori, le ferite. Ha scritto dell'omicidio di Ilaria Alpi e di Anna Politkovskaja, ma anche - e molto – di lavoro e di denaro: suo è il testo 7 minuti che Placido ha recentemente portato a anche al cinema.

La lunga, appassionante, saga dei Lehman non poteva non attirarli entrambi.

Dopo averci abituato a macchine teatrali sorprendenti, quella che Ronconi ha chiesto a Marco Rossi è essenziale: una scatola bianca, screziata di grigi e graffiata dai neri delle tute operaie degli attori

(ma sotto ci sono i gilet e le cravatte importanti) qualche sedia metallica, le insegne dei business che cambiano e segnano il passo dell'evoluzione di famiglia, botole che inghiottono sedie e personaggi, una trave che taglia la scatola scenica a metà. Qui volteggia il Solomon Paprinskij di Fabrizio Falco, equilibrista davanti alla Borsa di Wall Street, a simboleggiare l'aleatorietà di quell'impresa decisiva, l'imprevedibilità di un sistema che ha deciso di sostituire gli oggetti, la merce, persino il denaro, con le parole e le capriole.

Alla borsa, i fratelli Lehman arrivano con tutte le perplessità di uomini d'affari capaci, ma concreti, abilissimi a fiutare il vento per far salpare la nave al momento giusto, a capire quando il cotone doveva lasciar posto al caffè e questo al tabacco e poi ai televisori e al petrolio, quando non ad imprese ciclopiche come le ferrovie degli Usa o il canale di Panama; capaci di risollevarsi dagli incendi delle piantagioni, dalla guerra di Secessione, dalla crisi del '29 e da due guerre mondiali, geniali al punto di inventare il vero lavoro di chi fa i soldi, ovvero non tanto vendere merci, ma mediare tra produttori e compratori e poi vendere direttamente soldi. Eppure anche loro erano impreparati ad affrontare le esplosioni della finanza, dei titoli, dei subprimes che essi stessi avevano innescato.

La prima parte dello spettacolo arriva sino alla fine dell'Ottocento. Due fedelissimi attori di Ronconi come Massimo De Francovich e Massimo Popolizio interpretano, rispettivamente, Henry, il capostipite, e Meyer “Bulbe”, la patata, affiancati da Fabrizio Gifuni alla sua prima esperienza con il grande regista ed è una cavalcata sorniona, attraversata da uno humour graffiante, specchio dell'ebraismo ostentato dei tre fratelli: una religione intessuta di rituali dove il rispetto e la devozione meccanica ed assoluta per le Leggi di Dio verranno pian piano svuotati di senso dall'euforia capitalistica americana e infine sostituiti dalla venerazione per il dio Denaro. Chi ha assistito al debutto milanese dello spettacolo, ormai quasi due anni fa, ha notato che il ritmo, già intenso, è ulteriormente accelerato e il rischio – si potrà dire? – è che il funambolismo verbale, l'indubbio gigantismo attoriale di questa prova diventino, come il denaro, tentazione al gigioneggiare per Popolizio e seduzione del compiacimento per Gifuni. Sarebbe un peccato, un cedimento non accettabile.

La seconda parte è indubbiamente più cupa, meno compiacente, ma è qui che Ronconi ha concentrato alcune tra le sue ultime illuminazioni registiche: il serratissimo monologo con cui il convincentissimo Paolo Pierobon-Philip Lehman, figlio di Emanuel, ci spiega come è arrivato ad individuare la consorte più adatta al suo scopo (Francesca Ciocchetti, unica presenza femminile, incarna con piglio le diverse mogli di tutti i Lehman), districandosi tra razionalità mefistofelica e untuosa freddezza e dribblando le direttive del cugino rooseveltiano (Roberto Zibetti, asciutto e ironico); i salti quantici tra testo e azione drammaturgica nell'evocare il crollo della borsa o la guerra mondiale; il twist delirante – unica concessione musicale di tutta l'opera – del bravissimo Fausto Cabra-Bobbie Lehman, figlio di Philip e ultimo discendente della famiglia, che danza l'apoteosi e la macabra fine del suo impero, dato in pasto a due avventurieri della finanza come il greco Peterson (Raffaele Esposito) e l'ungherese Glucksman (Denis Fasolo) che Ronconi ha vestito di una vocalità quasi animale, di una gestualità abbozzata e strisciante, di un grigio metallico e alieno perché forse non era propriamente umano, sicuramente non etico, quel vorticoso inventare di finanza virtuale.

In principio fu il cotone. E poi venne il diluvio. Era lunedì 15 settembre 2008. Sta ancora piovendo.

 

 

Lehman Trilogy

di Stefano Massini

regia Luca Ronconi

con (in ordine di apparizione ) Massimo De Francovich ( Henry Lehman ) ,

Fabrizio Gifuni ( Emanuel Lehman) , Massimo Popolizio ( Mayer Lehman ),

Martin Ilunga Chishimba ( Testatonda Deggoo ), Paolo Pierobon ( Philip Lehman ),

Fabrizio Falco ( Solomon Paprinskij ) , Raffaele Esposito ( Davidson, Pete Peterson) ,

Denis Fasolo ( Archibald, Lewis Glucksman) , Roberto Zibetti ( Herbert Lehman) , Fausto Cabra ( Robert Lehman) , Francesca Ciocchetti ( Carrie Lauer, Ruth Lamar, Ruth Owen, Lee Anz Lynn) ,

Laila Maria Fernandez ( Signora Goldman)

scene Marco Rossi

costumi Gianluca Sbicca
luci A.J.Weissbard

suono Hubert Westkemper

trucco e acconciature Aldo Signoretti

Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa

Teatro Argentina, Roma, fino al 18 dicembre.

Spettacolo in tournée.