“Mario Martone”
La scena e lo schermo
di Alfio Petrini
Il libro “ Mario Martone, La scena e lo schermo ”, curato da Roberto De Gaetano e Bruno Roberti per Donzelli editore (Roma, 2013) raccoglie quattordici saggi critici di eminenti studiosi di teatro, e un “autoscatto” dello stesso Martone. Un libro utile, corredato da una puntuale teatrografia e filmografia. Una disamina puntuale delle opere realizzate dal regista napoletano sul versante del teatro, della musica operistica e del cinema.
Martone è un artista vero. E' un poeta della scena e dello schermo. Quali sono gli aspetti salienti del suo lavoro? Anzitutto si può dire che il suo è uno “sguardo singolare , nel senso di una sua irriducibilità rispetto a formule di comodo, a codici pre-scritti, a sceneggiature pre-viste” (Bruno Roberti). Ma, entrando in alcuni dettagli, si può aggiungere che l'arte di Martone attrae e convince allo stesso tempo, per diversi e specifici motivi: per la consapevolezza che in teatro e in cinema tutto serve per comunicare; per l'abilità ad intrecciare la comunicazione chiara con la comunicazione oscura , sfiorando i segreti e i misteri impenetrabili dell'uomo contemporaneo; per il recupero della parola, della recitazione, del testo; per l'abilità nell'uso della parola non ottusa: come tale, morta; per l'importanza attribuita al gruppo di lavoro, alla comunità di appartenenza, all'incontro; per la natura intermediale e sinestetica delle sue scritture sceniche; per la scrittura scenica fondata sul movimento che va dalla distruzione alla ri-creazione del mondo in unità organiche liberate dalla metafisica della luce; per l'attenzione “nei confronti del nostro Sud, e di una città polimorfa e stratificata come Napoli” (ancora con Roberti); per il modo con il quale ha evitato di essere schiacciato “dal peso della tradizione napoletana così spesso trasformata in oleografia e luogo comune” (Martone); per il rigore e la ricerca dell'opera teatrale come “arte totale” (Massimo Fusillo), un genere che sta al di là dei generi in quanto li comprende tutti; per la originalità del rapporto che ha saputo stabilire con la storia nel convincimento che la guerra si possa “veramente vedere” soltanto se non è vista, cioè mostrata con il fine di trasmetterne la memoria (Daniele Dottorini); per la differenza stabilita operativamente tra il multimediale (sommatoria di codici che rimangono separati e distinti) e l‘ intermediale ; per il superamento della tesi wagneriana della “fusione delle arti”, ma anche per il rigetto della teoria ambigua della “interdisciplinarietà”; e infine - ma non ultima per importanza - per “l'esigenza di rifondare lo spazio della relazione teatrale, uscendo dai teatri tradizionali per costruirne di nuovi…per restituire al loro interno la possibilità di una esperienza rituale, religiosa in senso autenticamente laico” (Daniele Vianello).
Queste, ed altre, sono cose che contribuiscono a fare la differenza. Il teatro di Mario Martone è davvero esemplare come sviluppo di un processo artistico che, nato su una dimensione ‘piccola' e raccolta di messinscena, si è poi saputo sviluppare fino a diventare grande teatro. Ma questo senza mai tradire una coerenza e una fedeltà d'intenti, e il desiderio di sperimentazione linguistica, e di rapporto col pubblico, che l'avevano contrassegnato dalla sua nascita. Bisogna anzi aggiungere che dall' idea di teatro iniziale ha fatto sì che quasi naturalmente il regista si volgesse al cinema e al grand théatre dell'opera lirica “ (Gianfranco Capitta). “Il modello di lavoro di Mario Martone è uno schema semplice che produce, a ogni passaggio, nuova fascinazione: una figura geometrica raddoppiata in un'altra, un quadrato ripetuto nel successivo, una tensione a una metamorfosi: la figura inclusa allude al teatro, all'opposizione dei corpi; l'altra, la figura esterna, è invece l'approdo del trasformarsi delle immagini nella coscienza fredda del cinema (Rino Mele). “Un cinema saggistico, che ha bisogno di uno scarto dalla materia narrata. Un cinema che in apparenza rifiuta ogni autobiografismo. Eppure un cinema che riflette anche sulla propria vicenda, ancora una volta fondendo individuo e collettività” (Emiliano Morreale). “Se la vita individuale e collettiva è attraversata dal sentimento della fine, della sconfitta, il teatro e l'arte in genere hanno un compito prioritario: ridare fiducia al mondo, trovare attraverso le macerie dell'esistenza la via d'accesso a una nuova creazione del mondo” (Roberto De Gaetano).
Una chiosa a margine meritano parole e concetti come “interdisciplinare”, “contaminazione tra le arti”, “fusione delle arti”, “sintesi tra i linguaggi”,, “sintesi fra le arti”, “teatro multimediale”, “fusione fra i linguaggi”, che attraversano molti dei saggi che costituiscono il libro. La precisazione impone di dire che le discipline non interagiscono perché non possono interagire, mentre possono interagire i codici espressivi combinati tra di loro; che è inverosimile “la sintesi dei linguaggi”, perché il linguaggio di un'opera è uno soltanto, ed è determinato dalla miscela linguistica eterogenea secondo la teoria e la prassi dell' unità nella diversità dei codici espressivi; che le opere di Martone non sono multimediali, ma intermediali, polidimensionali e sinestetiche; che un'opera intermediale e anche multimediale, mente un'opera multimediale non è intermediale; che il concetto wagneriano della “fusione delle arti” è da considerarsi superato.
A tale proposito è opportuno ricordare studiosi e artisti come Mukarovsky che riprende l'dea di Wagner affermando che il complesso delle arti, “immesse nel teatro, rinunciano alla loro autonomia, si compenetrano a vicenda e si fondano in una nuova arte pienamente unitaria”. Ma vanno presi in considerazione anche altri nomi: Depero e Balla, per il legame tra il concetto di “fusione” e l'atto del dare “scheletro e carne all'invisibile, all'impalpabile, all'imponderabile, all'impercettibile”; Schreyer per l'arte scenica che nasce come “organismo”, fondata sugli spessi principi della totalità del visibile e dell'invisibile; Schitters per il tentativo di superamento della “sintesi delle arti” tendente a mettere le radici nell'esperienza dell'artista nel tentativo di cogliere il respiro delle ansie, delle peripezie, delle morti e delle rinascite affinché la morte e la vita possano tornare, di nuovo, a intrecciarsi e a confondersi; Loholy-Nagy per il richiamo alla dissoluzione dell'opera come insidia che mette a rischio la totalità dell'opera; e poi Gropius per il “teatro di comunità”; Schlemmer per la teoria della trasformazione dello spettatore e dell'architettura teatrale; e infine Piscator per quel teatro politico in cui l'architettura e la drammaturgia si determinano a vicenda.
Ritengo inoltre che si debba tenere in buona considerazione una riflessione intelligente di Eugenio Miccini, uno dei padri della poesia visiva, il quale in occasione del primo convegno sul Teatro Totale (Roma, anno 2001, Vetrina Internazionale in Aree Intermediali e Sinestetiche ) ipotizzava la corrispondenza tra la pluralità dei codici espressivi (visivi, verbali, sonori, luminosi, oggettuali, spaziali…) e la pluralità del linguaggio, che gli sembrava esser la dizione più appropriata in riferimento al lavoro multicodice svolto nella prospettiva della produzione di miscele linguistiche eterogenee. E in occasione di quell'incontro dichiarava: “Nel titolare la mia relazione alla "pluralità” del linguaggio ho vistosamente usato una sineddoche che sottosta al sintagma: pluralità/totalità. Bastava dire linguaggi e il plurale era cosa fatta. Ma avrei anch'io commesso un errore, quello che fa parte del cosiddetto "modo materiale di parlare" (R. Carnap). In realtà avrei dovuto dire che il linguaggio realizza una pluralità di funzioni, quelle almeno, e sono sei, descritte da Roman Jakobson: fatica, referenziale, emotiva, imperativa, metalinguistica e infine quella poetica, che è l'unica autoriflessiva, in cui cioè il messaggio verte sulla propria forma. Anche se la semiotica attuale ha abbandonato questa classificazione, la trovo ancora utile per il mio discorso. Ma perché? Intanto, per evitare confusioni che spesso infirmano i testi anche di insigni studiosi. Sarà bene, quindi, affermare subito che i messaggi iconici non sono linguaggi anche se un linguaggio ce l'hanno. Non è un sofisma ma semplicemente un metodo. Tanto vero che se non possiamo classificare certi messaggi come a priori, cioè fondati su un proprio universo di discorso, possiamo analizzarli come "testi", cioè come sistemi misti o codici culturali, semiotizzati in seconda istanza. Ma, ad essere sinceri , anche a proposito della totalità occorrerebbero alcune opportune cautele. Non saprei datare l'uso di questo aggettivo che forse potrebbe significare, appunto, una pluralità”.
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