Un'altra tradizione
Il Pinocchio di Fabrizio Arcuri da Joël Pommerat
di Paolo Ruffini
Era di qualche tempo fa una riflessione di Fabio Chiusi su L'Espresso a proposito del concetto di immaginario, ovvero quell'insieme di ‘materie' della percezione, del ricordo, della sensibilità che si ha in comune, anche patrimonio di una porzione residuale della società, e da cui il retaggio o almeno la speranza di avere un pezzo di comunità alla quale fare riferimento; immaginario come insieme di contenuti e di segni (o simboli, avremmo detto una volta) che ci riportino a cogliere e a comprendere alcune motivazioni o slanci ideali, dentro un vocabolario e pratiche condivisi. L'immaginario è però anche una gabbia, un facile abbandono verso ciò che è sedimentato, che si è trovato, e per abitudine ossidato nella ricerca di un altrove, una soglia codificata dalla impressionabilità percettiva dell'umano. Una abitudine, appunto, anche alla rivolta, al conflitto. La forma è contenuto si diceva, e quando questa si propone nella sola idea della differenza , della distanza, non fa altro che riproporre una sovversione a tempo, a scadenza. Altro è affrontare le processualità artistiche in termini di scarto , direbbe François Jullien, una figura per certi versi retorica che si rivela come «una figura non di identificazione, ma di esplorazione, che fa emergere un altro possibile» (1).
Scriveva Fabio Chiusi: «È un processo affine alla dominazione ideologica, che sempre si pone come priva di alternative; ma è anche un altro modo del primato della tecnica sull'arte, un concepire la cultura di massa come dipendente più dell'esattezza chirurgica, ingegneristica di astronavi mai esistite che dell'umanità, e dunque dalla curiosa inesattezza, di chi li guida. Sopravvivremo, insomma, ma saremo a ogni scontro più inquinati, meno liberi di creare e meno liberi in ciò che era già stato creato, e avevamo assimilato e fatto nostro. L'immaginario che diviene rigurgito ci toglie l'appetito per altro immaginario, è questo il problema. Non la ‘post-ideologia' dove tutto si equivale, ma il dominio dello stesso. Una spirale più stringente, più indifferente e insieme letale a ogni giro. Una spirale che collassa in un pensiero: se il cinema, come dice Slavok Zizek, è la perversione estrema – non darci quanto desideriamo, ma dirci come desiderare – il soft remake dell'immaginario, non pervertendo più nulla, non è cinema. Quando accadrà noi che guardiamo, se ancora guarderemo, non saremo più uomini. Chissà, replicanti» (2).
E nel paradigma del teatro, che ha generato immaginari ancora in uso, persino in quella risacca piena di codici ch'è stata la sfera delle lingue anarchiche – poi diventate tradizione - delle avanguardie, capaci di sovvertire lo stesso regime di sovversione di cui sono state portatrici, appare molto più evidente qual è la posta in gioco nel difendere un immaginario (nella sua molteplice configurazione di esperienze diverse) piuttosto che tentare di nuovo uno spostamento, uno sgambetto concettuale, per allertare del rischio di assopimento di fronte ai vezzi o alle maniere di un unico immaginario (o più di uno) che rischia di essere imperante. Tra i registi di teatro dediti da tempo ad affinare una soggettiva narrazione estetica e di senso, Fabrizio Arcuri sembra quello che dopo aver attraversato le stagioni inevitabilmente orientate dall' allure generazionale, e dopo essersi posizionato in quella certa restituzione seriale segnata dal dubbio nel cinismo drammaturgico qual è lo spettacolo Sweet Home Europa , probabilmente punto di non ritorno della scrittura in rapporto all'overdose recitativa, prende non da oggi le distanze da frasi e rimestamenti scenici da lui stesso trovati, e che lo hanno definito, per non rimanere intrappolato dentro quel temperamento. Un temperamento che sempre più scavalla la certezza acquisita, trova ulteriori confini, pone lo spettatore di fronte a soluzioni sceniche non generiche né comode, accelerando persino in quella chiave di volta del ‘comico' che ha fatto scuola a partire da Attempts on her life.
Lo fa con un progetto apparentemente ‘in minore', dal risvolto pop che di fatto ne definisce una tessitura emancipata e popolare graffiata nondimeno nell'etimo e nei suoni della scena, che poi è una delle sue opzioni linguistiche, e riguarda le riscritture di Joël Pommerat di Cenerentola e di Pinocchio . E se il primo sgretola i meccanismi parentali in una relazione fra personaggi a dir poco ormai allo stremo, con Pinocchio si apre un campo che va oltre lo spazio indifeso del quotidiano. Pommerat e Arcuri operano un'inversione di rotta, come spesso accade nei lavori del regista, dove l'inizio è già un fine, una tesi, e quello che sta in mezzo è lo strumento, il marchingegno al servizio di una ‘narrazione' sfaccettata e in cui in ogni personaggio affiora più di una caratteristica dell'umano anche in contraddizione fra loro, quasi per esaltarne la frizione emotiva. A partire da sé e nell'incontro con l'altro, lo spessore testuale gioca sulla dicibilità di sentimenti controversi spostando l'asse morale finanche nel tempo attuale, e di questo portato il regista si serve per rivoltare a sua volta sia i piani visivi che interpretativi portandoli metaforicamente a pochi passi da noi, dallo spettatore. Questa prossimità, questo stare nello stesso tempo e nello stesso spazio del racconto permette a chi guarda di sentirsi a proprio agio nella verità della finzione scenica.
Pinocchio quanto il racconto di Jonah nel ventre del Leviatano è un archetipo, un mito come le ‘meraviglie' di Bruno Schulz che imbastiscono un archivio della memoria, è una figura allegorica depositaria del tempo per questo nostalgica, memorabile, che si lascia sedimentare, costituita di infiniti dettagli, di particolari che solo a un attento sguardo si riveleranno non irrilevanti perché ci rimanderanno qualcosa della nostra percezione, del nostro stesso modo di stare al mondo. Attenzione però, Pinocchio (il racconto) non siamo noi ma il mondo di ombre che ci trasciniamo dietro, sono i dubbi di René Descartes, i visionari tasselli di buon vicinato di Aby Warburg, in ordine a un sistema simbolico dove prorompe l'io dialogico di Hannah Arendt, un rovesciamento. Un rovesciamento dei ruoli e della figura che la società ci ha consegnato per Legge. E la Legge nel sistema di valori delle fiabe ordisce incontri che superano, vanno oltre il confine del naturale, pongono questioni inerenti al Potere. Anche quello dell'immaginario.
Lo spettacolo di Arcuri veste un Pinocchio privo di scrupoli, è figlio della non rivolta generazionale in quanto uomo-burattino comodamente assiepato nell'omologazione del ‘tutto e subito' di una superficie che diventa Storia, del desiderio come spazio soggettivo depotenziato, della banalità del male direbbe la Arendt, della sola opportunità dell'oggi senza la chance di futuro. Prova a mettere assieme una sua identità che già gli scappa dalle mani, avverte la impalpabilità di questa identità in un tempo ormai liquefatto. L'accumulo di opzioni visive che il regista ordisce è di fatto il caleidoscopio dal quale misurare la temperatura del presente fatta di spostamenti repentini, violente sopraffazioni, paradossali rigurgiti di violenza, banali morti per ammazzamento, affettività pop appunto, alle quali mai credere fino in fondo. E si ride, di questa lugubre rappresentazione della morte della speranza, si ride.
Gli spettri del Grillo parlante, le pistole che arringano in un'atmosfera da dark comedy da film americano anni quaranta, animali o maschere di animali che invadono a più riprese (quasi un serial nell'opera) la scena dichiaratamente post-surreale, danze e ritmo hip hop, fumo da club dance, la scena diventa un'esplosione di mirabolanti giochi da varietà televisivo, mentre il Burattino che scantona le illusioni è alle prese con la personale ricerca di quella verità da vivere. Spettacolo di grande tensione straordinariamente costruito e interpretato magistralmente, in quella tangenziale di paradigmi tra estetica e reale che pongono, si diceva, una questione di significato. Arcuri è un regista dal carattere europeo, quel Nord oltralpe dove le tradizioni sono state riassorbite e rimestate nel pulviscolo delle più complesse urgenze del dire del proprio tempo, e dove un'altra tradizione si sta costruendo rivivificando drammaturgia e ruolo dell'attore in un'idea della visione che non è più (da tempo) paesaggio.
1) François Jullien, L'identità culturale non esiste , Einaudi, Torino 2018, p. 30.
2) Fabio Chiusi, L'immaginario è morto , L'Espresso, 14 gennaio 2018, pp. 76-77.
Pinocchio
di Joël Pommerat
regia Fabrizio Arcuri
con Luca Altavilla, Valerio Amoruso, Matteo Angius, Gabriele Benedetti, Elena Callegari, Irene Canali, Rita Maffei, Aida Talliente
spazio scenico Luigina Tusini
foto Giovanni Chiarot
produzione CSS Teatro Stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
Teatro India, Roma, 28-29 aprile 2018
|