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Abramo

di Giorgio Taffon

La storia di Abraham e del richiesto sacrificio del figlio Isacco, poi bloccato per la decisione di Yahwhé, la si può considerare o come uno degli episodi chiave del Libro biblico della Genesi, secondo tradizione sacra ebraica, poi reinterpretato dal Cristianesimo e dall'Islam; oppure come uno dei Miti fondativi della civiltà mediterranea. Una delle “narrazioni” che mescolano dati storici di difficile documentazione, in cui si consolidano personaggi e vicende culturalmente e antropologicamente archetipiche.

Su questa seconda ipotesi poggia il testo scritto da Ermanno Bencivenga, docente di Filosofia all'Università della California, dedito anche alla scrittura poetica e favolistica. Il testo drammatico sta un po' a metà tra il settecentesco conte philosophique e il genere classico del dialogo filosofico. L'approccio del Bencivenga non presuppone fedi religiose, leggendo il sacrificio di Isacco come probabile soluzione di un ancestrale conflitto tra il Padre-Padrone-despota-“dio” e i suoi figli, cioè le nuove generazioni, che, per legge naturale, dovrebbero subentrare ai padri nella gestione dei vari poteri: familiare, economico, sociale e anche religioso.

La regista dello spettacolo Teresa Ludovico, storica regista del Kismet di Bari, ora divenuto da questa stagione Teatri Di Bari Kismet Abeliano, già in sede di adattamento drammaturgico del testo, opta per una prospettiva laica, terribilmente sospesa su una probabile catastrofe , anche se, in realtà, il suo adattamento è spostato verso la “contaminazione” dramma/tragedia borghese , forma tipica della scrittura e dello spettacolo novecentesco, anche italiano (Pasolini, fra tutti).

Da tale opzione nasce uno spettacolo scenicamente e teatralmente compatto, vivo, emozionante, molto teso nei suoi snodi drammatici, che tiene avvinti per poco più di un'ora gli spettatori. Come regista la Ludovico sa sciogliere un primo determinante, a mio parere, nodo, evitando all'inizio dell'azione che Abramo appaia più un vecchio un po' “rimbambito”, che si fa convincere da due “visitatori” a lui sconosciuti, a sacrificare il figlio: piuttosto che un Patriarca vegliardo fedelissimo a Dio, e capace di leggere i suoi segni. Il rischio, presente nel testo, sulla scena viene brillantemente evitato: i visitatori-messi-scherani-mafiosi “minacciano” il vecchio, che si vede costretto a obbedire a un'entità superiore senza quasi batter ciglio. La Ludovico, coi suoi bravissimi attori, ha saputo teatralmente de-mitizzare il mito stesso, o comunque reinventarlo, secondo tradizione del ‘900, immaginando uno spazio-tempo a noi contemporaneo di grande efficacia espressiva, dove rinvii e citazioni pasoliniane (il Pasolini di Affabulazione e anche direi quello di Porcile ) acquistano indubbia coerenza scenica. La scenografia stessa, che rinvia a case e casate di alto lignaggio borghese italiano, e non, offre prospettive metaforiche avvincenti: il palcoscenico è avvolto da persiane-porte-finestre, che creano uno spazio domestico fisicamente costrittivo, e uno spazio mentale come dimensione psicologica e interiore della consunzione e disperazione: la loro vicenda familiare è la storia di un disperato annullamento, che da intimistico-familiare si fa destino anche collettivo.

Tutti gli attori assecondano pienamente il disegno registico, a partire da una Sara, interpretata proprio dalla Ludovico, moglie e madre, che ambiguamente sembra nel finale agghiacciante (“piovono pietre”), cadere, anche per vendicarsi, nella logica maschilistica e patriarcale. Ricordo, ad esempio, la bella azione fisica che permette alla Ludovico, poggiata su un tavolo bianco (che ha più di una funzione metaforicamente suggestiva) di ricordare struggentemente i giochi dell'infanzia d'Isacco.

Augusto Masiello delinea un Abramo che crea un suo Dio, un Signore che potrebbe anche non avere valenze metafisiche e trascendenti: un Abramo che, nella capacità di serrare gradualmente e con precisione apprezzabile, il tempo-ritmo della sua azione, giunge all'uscita di scena dando il segno di una scomparsa davvero tombale.

Ottima la presenza scenica di Domenico Indiveri che incarna un Isacco più modello generazionale che giovane impaniato in grovigli psicologici: la sua esuberanza fisica fa da contraltare energico alla decadenza del padre: al ritmo dei Queen è lui il vero entusiasta (che ha un-dio-in- sé).

Molto bene pure le scelte interpretative dei due visitatori-viandanti interpretati da Michele Altamura e Gabriele Paolocà, che si muovono e parlano tra un immaginario postmoderno e con stilemi elocutivi e sonori pasoliniani (anche quello del cinema): e che sanno bene, per sfumature, assumere pose e toni e intenzioni “banditesche”.

Christian Di Domenico è un Eleazar, servo e commentatore e narratore, che evita bene didascalismi e clichéès scontati.

Da approvare pienamente il lavoro di Vincent Longuemare i cui elementi scenografici e il cui disegno luci corroborano la regia evitando scontati effetti e risultati semplicemente funzionali: le sue luci fredde, calcificano un microcosmo ossificato.

Auguro alla nuova stagione appena iniziata del Teatri di Bari Kismet-Abeliano, presieduti da Nicola Lagioia, intellettuale e scrittore di conclamate capacità, ogni successo.

Abramo

di Ermanno Bencivenga

adattamento teatrale e regia Teresa Ludovico

con Augusto Masiello, Teresa Ludovico, Christian Di Domenico, Michele Altamura, Gabriele Paolocà, Domenico Indiveri

spazio scenico e luci Vincent Longuemare

costumi Cristina Bari e Teresa Ludovico

produzione Teatri di Bari