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Acqua di colonia: una messinscena ironica e tagliente sul Colonialismo italiano

di Letizia Bernazza

 

Ho visto Acqua di colonia al Teatro India di Roma la sera che ha inaugurato il Ritratto d'Artista, una “personale” dedicata dal Teatro di Roma a Elvira Frosini e Daniele Timpano. Dal 28 febbraio al 5 marzo, infatti, la meritevole iniziativa ha avuto il valore di avvicinare il lavoro dei due artisti agli spettatori, consegnando loro il percorso costruito negli anni dalla coppia di attori. Si è partiti dall'ultima messinscena, Acqua di colonia (presentato a Romaeuropa Festival nell'autunno del 2016), poi si è passati per Aldo morto e Digerseltz (creazioni che risalgono entrambe al 2012), fino ad approdare a Zombitudine (spettacolo che ha debuttato al Teatro della Tosse di Genova nel 2013).

Ma torniamo a Acqua di colonia . L'ho trovato interessante, ben costruito e coinvolgente. Perché interessante? Perché poggia la sua struttura drammaturgica su una rigorosa valutazione della Storia. Fondamentale, ritengo, per procedere a costruire le maglie di un testo senza scadere nell'ovvietà e nei luoghi comuni. Non era affatto facile affrontare il tema del Colonialismo italiano, di cui tutti noi sappiamo davvero poco o forse niente per l'innata inerzia a documentarci e per la reticenza a rimestare il passato al fine di trovare delle risposte sul nostro presente. Grazie alla preziosa consulenza della scrittrice e giornalista italo-somala Igiaba Scego (la stessa che firma la prefazione del volume dal titolo omonimo pubblicato dalla casa editrice Cue Press), Frosini-Timpano ci conducono per mano in quei luoghi, astratti ed esotici, che chiamiamo in maniera troppo generica Africa e che ignoriamo persino dove siano. Nell'immaginario collettivo e sui libri di storia, infatti, la conquista dell'Italia in terra africana si ferma all'Etiopia. Eppure, quanti di noi conoscono le pieghe “rimosse” della nostra occupazione in Libia, Eritrea, Somalia e, soprattutto, quanti di noi sanno che il Colonialismo italiano non si riduce ai cinque anni dell'Impero fascista e che ha le sue origini nell'Ottocento, ovvero in <<quella mentalità piemontese dell'unità d'Italia di annettersi territori altri, reprimendo ogni forma di ribellione con la forza>>? Pochi, ad essere ottimisti. Pochissimi, ad essere realisti.

Ora veniamo agli altri due punti: Acqua di colonia è ben costruito e coinvolgente. Sulla base di un attento studio delle fonti storiche, lo spettacolo - senza interruzione alcuna di ritmo e di calo della tensione – procede spedito dall'inizio alla fine. Tutto questo grazie all'interpretazione del duo che riesce, con grande efficacia ed ironia, a intessere citazioni storiche, letterarie e filmiche sui loro corpi di attori. Sono le azioni fisiche, le caricature, le espressioni facciali, le “imitazioni” dei tanti personaggi, le battute icastiche che pronunciano a farci entrare ed uscire continuamente dai fatti narrati. In uno spazio vuoto, occupato - nella prima parte - da una donna nera, muta e seduta su una sedia, a ricordarci chiaramente un oggi che non può e non dovrebbe prescindere dagli eventi accaduti in epoche ormai trascorse, gli attori catturano via via l'attenzione del pubblico. D'altronde, non c'è tempo per distrarsi. Frosini-Timpano sono un fiume in piena. Passano in rassegna film (demistificano il monologo finale di Meryl Streep ne La mia Africa o fanno il verso a Mammy di Via col vento ); canzoni (invitano con sarcasmo gli spettatori a intonare Faccetta nera , ci ricordano le note, altrettanto irriverenti, di Sanzionami questo del cantautore futurista Rodolfo De Angelis che nel suo testo si prendeva gioco dei potenti e della “comunità internazionale”, o ancora Topolino in Abissinia di Fernando Crivelli che svela, candidamente, l'uso dei gas nella guerra in Etiopia) e, come se non bastasse, nella seconda parte, prendono di mira diversi intellettuali: da Indro Montanelli (con la moglie abissina dodicenne della quale Timpano ci parla con vivace spontaneità comodamente seduto a lato del proscenio) a Pier Paolo Pasolini. Un gran pezzo di teatro quest'ultimo. Elvira Frosini si cala nei panni dell'autore di Casarsa con lodevole maestria. Occhiali scuri, mano sul fianco, l'attrice lo incarna perfettamente. La postura rigida e le parole enunciate - mentre entrambi gli interpreti vestono i panni del colonialista doc con pantaloncini corti, calzettoni e cappello bianco – deridono atteggiamenti e prese di posizioni borghesi che, in fondo, resistono ancora oggi negli ambienti radical chic del quartiere romano del Pigneto, ad esempio. Qui, un noto ristoratore si fa pregio del fatto che Accattone sia stato girato proprio nei pressi del suo locale. Falso, ci dicono i due attori. Le scene di quel film sono state realizzate un po' più in là. In un altro posto, insomma. Ed è Daniele Timpano-Ninetto Davoli, il più famoso tra quegli interpreti dal fascino ingenuo scoperti da Pier Paolo Pasolini, a ribadire che forse dobbiamo farla finita di nasconderci dietro comportamenti auto-riferiti ed ego-occidentalizzati che non ci permettono di vedere oltre. Di percepire, cioè, le nostre reali responsabilità e di renderci consapevoli che quello che vediamo oggi nei nostri mari – gli innumerevoli sbarchi e i tanti morti – sono soltanto la conseguenza di misfatti perpetrati da decenni. E non ci illudiamo di mettere a sopire la nostra coscienza con le adozioni a distanza perché in fondo, dietro la solidarietà di facciata, ci disturbano gli extra-comunitari che vogliono venderci accendini, rose, carica batterie, mentre sorseggiamo comodamente un aperitivo in esercizi fashion con ai piedi le tanto amate Birkenstock. E non ci illudiamo di essere diversi da coloro che fanno battute scontate sulla progressiva “invasione dei neri”. Pungente e spassoso al tempo stesso, è a tale proposito il dialogo serrato in cui le considerazioni su “i negri d'Africa” di Kant e di Croce si alternano alle opinioni sullo stesso argomento del barista sotto casa o a quelle della fantomatica cugina Veronica. Nel continuo avvicendarsi di sketch comici (non mancano neanche Stanlio e Ollio) si arriva al finale. La tirata conclusiva è affidata a un gorilla di peluche, il bambino Unicef, che con la voce, fuori campo, nitida e commovente di Sandro Lombardi chiosa: <<Sarebbe ora che mi facessero parlare e invece parlano sempre loro>>. Una conclusione un po' ad effetto - come anche la scena dei due interpreti vestiti da Topolino che arretrano lentamente sul palco indossando lugubri maschere antigas – che tuttavia non disturba. Semmai stride leggermente con l'andamento mai retorico della messinscena.

Sono andata via dal Teatro India con l'immagine della boccetta a forma di donna nera della locandina. Quell'acqua di colonia con cui ci profumiamo per non puzzare delle nostre scelleratezze.

 


crediti fotografici di: Laura Toro

 

Acqua di colonia

testo, regia e interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano

consulenza Igiaba Scego

ospite in scena il 28 febbraio Aicha Cisse

voce del bambino Unicef Sandro Lombardi

scene e costumi Alessandra Muschella, Daniela De Blasio

luci Omar Scala

aiuto regia e drammaturgia Francesca Blancato

Teatro India, Roma, dal 28 febbraio al 2 marzo 2017