Apologhetto
sugli attori ben formati
di Giorgio Taffon
Un giorno un vecchio gufo una
gallina ed un'oca, che si conoscevano da tempo abitando in un
grande casale di campagna, s'incontrarono nel foyer di un teatro
italiano, in una tiepida serata cittadina, dove stava per iniziare
L'anitra selvatica di Ibsen. Essendo in procinto di entrare in
sala si accordarono, una volta finito lo spettacolo, di tornare
assieme ai loro alloggi, anche per discutere della performance
stessa degli attori, strada facendo e visto il clima tiepido.
Lo spettacolo era dedicato a un pubblico esclusivamente di volatili,
perché di umani non ci andava più nessuno a teatro,
e perché mescolare in platea altre varie specie e famiglie
di animali avrebbe costretto gli attori a sicuri fiaschi, con
il rischio di schiamazzi, rivolte, e danni fisici.
Naturalmente il regista, come d'altra parte i suoi stessi attori,
sapeva che gli spettatori presenti, sapendo volare, avrebbero
potuto, così all'improvviso, planare sul palcoscenico,
magari perché scontenti, o annoiati, o addirittura troppo
incuriositi; per cui aveva fatto calare un resistente velatino
che separa il palcoscenico dal pubblico dei volatili; e anche
perché, nel caso di un enorme successo, il battito delle
ali avrebbe potuto, alitando sulla scenografia, apportare dei
danni.
Inoltre aveva avuto un'idea giudicata da tutta la compagnia assai
brillante, e cioè rappresentare, a sere alterne, L'anatra
all'arancia, la commedia di Sauvajon, e L'anitra selvatica, la
tragicommedia di Ibsen, alla cui rappresentazione i tre amici
pennuti, appunto, stavano per assistere. Il regista intuiva che,
nel primo caso, contrariamente agli umani che ridono molto, l'effetto
per i volatili sarebbe stato opposto, nel caso si dovessero immedesimare
tragicamente con l'anatra destinata a divenire piatto principale.
Nel caso del testo di Ibsen, invece, intuiva che per i volatili
l'effetto si sarebbe potuto rovesciare, rispetto agli umani, potendo
diventare comica agli occhi dei primi, “naturalmente”
dotati per il volo, l'incapacità tragica degli uomini di
“volare” liberi.
Senonché quella sera ci sono continuamente reazioni assai
confuse e diverse tra il pubblico dei volatili: chi ride quando
si dovrebbe piangere, e viceversa; alcuni rumoreggiano “pigolando”
impazienti; altri sgranocchiano grani afferrati col becco da sacchetti
ben gonfi: molti sono del tutto indifferenti a quanto accade sulla
scena e si appisolano pure; gli attori non si capacitano più
di come si debbano porgere a quel pubblico eterogeneo, forse distratto,
forse incolto e disinteressato. Il regista, dietro le quinte,
incazzato nero, grida ai suoi attori di spingere forte sui registri
tragici per far ridere, e su quelli più “leggeri”
magari per far commuovere, ma l'espediente non porta alcun risultato
positivo: insomma si crea una gran confusione, e addirittura pare
che volino sul palcoscenico alcune uova calde calde appena deposte!
Gli attori più anziani, che non son riusciti o non hanno
voluto cambiare mestiere una volta che la crisi del teatro era
deflagrata, sono stupiti pensando ai tanti pubblici che nella
loro carriera hanno saputo domare! A nessuno degli attori viene
in mente che possa dipendere dal loro modo di stare in scena,
da una scadente preparazione o formazione, dal loro disinteresse
a frequentare dei corsi e laboratori davvero seri di aggiornamento
sul come ottenere un rapporto di organicità tra attore
e spettatore, chiunque quest'ultimo sia: eppure di “maestri”,
seppur sempre rari, ce ne sono ancora in giro per l'Italia.
A fine spettacolo il gufo, la gallina, e l'oca, si ritrovarono
nel foyer pronti a far ritorno alle loro abitazioni. L'oca non
poté che esclamare agli altri due: “Io non ci ho
capito nulla!”. La gallina le fece eco, e dondolando di
scatto la testa, velenosamente esclamò: ” Pure io
ci ho capito poco di questa sciocca storia di umani, anche se
qualche risatina me la son fatta, in un mare di noia!”.
Al che l'oca, ora giuliva, fece al gufo:” E tu, caro il
mio gufone saggio e sapiente, che ne pensi?”; s'aggiunse
la gallina, stirando indietro la zampa sinistra e pavoneggiandosi:
“Già, tu che sei il più saggio fra noi, che
ne dici?”.
Il gufo si fermò, prese gli occhialini da miope, lui che
aveva una vista perfetta adatta, in teatro, anche a vedere dalla
balconata più alta, strofinò le lenti con un fazzolettino
di carta, e disse:
“Innanzi tutto dobbiamo tener presente la difficoltà
di inserire la storia che abbiamo seguito sul palcoscenico in
un contesto di vita del tutto diverso, e ciò è per
noi molto difficile, occorre, appunto, è vero... una certa
qual saggezza” il gufo tossicchiando continuò “
e da questo punto di vista secondo me la compagnia ha fatto di
tutto per tentare di interessarci alla vicenda!”.
Subitamente intervenne la gallina: “Però perché
mi sono annoiata un bel po', questo come te lo spieghi mio caro
gufo?”. E l'oca aggiunse chiacchiericcia un suo “Già,
già, già, già...”. Il gufo le osservò,
con un'aria quasi di scherno:
“Perché, vedete, in teatro la prima cosa necessaria
è che si stabilisca tra attore e spettatore un rapporto
diciamo “speciale”, prima ancora che la storia possa
essere interessante, le scene attraenti, le luci scintillanti,
ecc.: mi capite?”.
“Per bacco, fece la gallina, la faccenda mi sembra chiara
come la chiara delle mie uova!”.
“Per cui” continuò il gufo “gli attori
di teatro, a parer mio, devono portare tale rapporto all'incandescenza!”
“E che vo di'?”, fece l'oca sempre più giuliva.
“Vuol dire che tra attore e spettatore deve giungere a fusione
un flusso di energia tale da “illuminare” l'attore
stesso, come l'energia di una lampadina che attraversando il filo
di tungsteno lo rende luminoso!”.
“Ma guarda, ve'?” fece la gallina, spalancando il
suo giallo becco.
“Ma a me l'attori mi sembravano tutti spenti!” fece
l'oca.
“Certo, gli attori di stasera non sapevano portare a fusione
le loro energie con quelle nostre potenziali di spettatori interessati:
perché, evidentemente, nessuno glielo insegna più!
Questo è il guaio! Bellezze mie!”.
In coro le due pennute: “Questo è il guaio!”.
“Per cui” fece il saggio gufo “è sempre
più difficile provare a teatro un piacere chiamiamolo,
è vero, “mondano”, il piacere di partecipare
a un rito sociale; così pure è sempre più
fievole il piacere “erotico”, cioè quel “tropismo”,
scusatemi la “parolaccia”, fisico che l'attore accende
tramite sensualità e attrazione sessuale. E poi dov'è
finita quella che potrei definire “emozione intellettuale”,
quando l'attore “muove” lo spettatore, e lo “com-muove”
spingendolo a pensare, a riflettere?”.
La gallina e l'oca sono tra il rapito e la confusione mentale
a sentir parlare il saggio gufo, ma ancora la loro attenzione
è sufficientemente vigile.
“Non si ammirano quasi più gli attori, cioè
sempre meno siamo presi dal “mirare” “verso”
l'attore che agisce sulla scena; e pensiamo ai fatti nostri; e
l'attore che non si illumina non provocherà in noi spettatori
passioni, timori, magari incomprensioni, per quanto succede sulla
scena; nemmeno ci disgustiamo più! Insomma gli attori possono
farci annegare nella noia più totale! Avete capito? Questo
è il risultato dei metodi di insegnamento e di formazione
degli attori che si son avuti da tanti, troppi anni; metteteci
poi il cinema e la televisione, e la frittata è fatta,
povere uova vostre! Avete domande da farmi?”.
La gallina lo guardò fisso negli occhi: “Allora beati
i tempi in cui a teatro si andava per ridere a crepapelle, e anche
qualche volta per piangere, magari di nascosto, per la commozione
che la bravura di un interprete ci procurava!”.
Il gufo sospirò, guardò entrambe le amiche, e disse:
“Bisognerebbe ricominciare tutto da capo, tornare alle antichissime
due maschere greche del teatro: quella che ride, quella che piange;
bisognerebbe che gli attori tornassero a farci ridere e piangere,
ma sul serio, eh?, fino a sfinirci; dovremmo giungere a considerarli,
gli attori, dei compagni di vita, amici a cui rivolgersi, di tanto
in tanto, quando ne sentiamo il bisogno, dentro di noi... per
ridere, o per piangere...”.
Giorgio Taffon
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