EditorialeIn itinereFocus Nuove arti visive e performative A sipario aperto LiberteatriContributiArchivioLinks
         
       
 

De facto
Ustica nel racconto poetico di Ateliersi

 

di Paolo Ruffini

 

Di nuovo i suoi lamenti

sferzano come fruste

e battono la testa

negli spigoli del buio…

Serjei Esenin

 

 

Diverso tempo prima della ‘crisi' del concetto di Occidente tanto in voga in questa attualità tardo novecentesca, prima che il consumo prevaricasse sulla produzione (anche in termini culturali), prima dell'avvento di una società postsociale , paradigma in uso oggi riguardante una società imbrigliata dalla globalizzazione, tecnologicamente evoluta spinta con l'acceleratore sulla soggettività dei desideri e dei diritti; insomma, prima che fosse chiaro il divario fra povertà incipienti anche dietro l'angolo e overdose di lussi insensati, le storie che ci venivano raccontate (e di fronte alle quali non avevamo alcuna possibilità di replica) ‘vestivano' quel carattere dogmatico, tipico dell'andazzo del nostro Paese, soprattutto a ridosso dei cosiddetti ‘anni di piombo'. Tutti sapevano nessuno parlava. Complice forse la divisione in blocchi in cui versava il mondo intero e a cui ci si atteneva imbevuti di ideologia. Tutti eravamo vittime di un sistema omertoso (e in parte lo siamo ancora), o almeno lo si pensava, ma dove capitava persino che i carnefici si spacciassero come tali. Vittime di un sistema, come se il sistema fosse altro da sé. Degli anni che abbiamo da poco lasciato alle spalle, e che sembrano lontani sebbene il loro strascico innervi ancora le malparate della gestione pubblica, molti buchi neri rimangono. Fatti di cronaca, di cronaca politica, di ordine pubblico o di atti di guerra, sono tanti gli appuntamenti mancati sui quali torniamo a porci domande. Gli artisti lo fanno a modo loro, prendendo di petto il senso degli accadimenti e rovistandoci dentro. C'è stato anche un momento, a partire dalla fine degli anni Novanta e almeno per un decennio, in cui la scena teatrale che abbiamo osservato come ‘impegnata' si è prodigata in una serie di stratagemmi narrativi e contenutistici propri a quell'idea di ‘frustata' allo spettatore assopito, quasi fosse l'unica maniera di parlare in scena – appunto - di questioni dentro la Storia, un dogma e a sua volta una risacca irta di storie. L'autore-attore nel presunto ‘teatro di narrazione' ha apparecchiato una linguistica delle intenzioni così capziosa da lasciare poco spazio ad altre intemperie e ad altre narrazioni, riducendo a lumicino il paradosso brechtiano di un teatro impegnato nella ricostruzione politica dei fatti lasciando ‘solo' l'attore (e dimenticandoci che il vero tratto politico in arte è il gesto e la concrezione dei segni che incidono nel discorso e nelle sue derive lessicali). Figli e nipoti di Dario Fo, pronipoti forse del Living, parenti prossimi di Moni Ovadia, detrattori del Teatro Settimo e di tutta la sua accolita di pedagoghi di ritorno, i più giovani stazionano ormai come alla deriva in un anfratto della memoria, nel loro essere smemorati dentro una matrice che li ha contrassegnati con un marchio di fabbrica decisamente sbiadito. Il modo oltre il contenuto, a nostro avviso, precisa invece quella speciale qualità che tiene assieme portata sociale o politica e racconto teatrale, la costruzione delle informazioni e delle visioni, la precisa scelta di allocare nel reale più propriamente attuale del tempo storico le storie che si vogliono condividere con lo spettatore. Alcuni esempi possiamo rintracciarli nel lavoro scenico di Andrea Adriatico (di cui abbiamo parlato di recente), nelle scritture meta-surreali di Marta Cuscunà o nei totem autoriflessi di Ascanio Celestini o nello straordinario ritorno ‘in minore' di Davide Enia. Ma un altro percorso, parallelo e diverso, porta da tempo a impegnarsi su temi cari a questa sorta di radiografia della Storia, e cioè quello della compagnia Ateliersi impegnata già a coniugare la definizione di un contest scenico all'interno del quale animare figure che di quella perimetrazione scenica ne assorbano il timbro, il ritmo interno, la trasfigurazione seppure ossessiva della testualità. Di primo acchito il loro nuovo spettacolo De facto ci appare come un'opera musicale prestata al teatro, o per meglio dire un teatro musicale che mantiene una sorta di architettura dei suoni al servizio di un parlato diretto, non mediato dalla retorica recitativa, potremmo azzardare nel definirlo un parlato involontario , che si mostra nella sua esemplare declaratoria d'ufficio. Non sono pochi gli esempi o i tentativi di tenere assieme queste due anime, quella musicale-concertistica e quella teatrale (e nello specifico di un teatro che si fa politica), in questo frangente temporale, non ultimi quelli ospitati come lo stesso De facto proprio al Romaeuropa Festival. Il nesso tra attrazione per un teatro politico e orchestrazione di suoni ha visto raggiungere in un recente passato interessanti risultati di analisi dei due campi d'azione, per esempio il King Artur dei Motus o, per tornare all'oggi del Romaeuropa, la disamina dei Muta Imago da Monteverdi per Libro ottavo – Canti guerrieri , dove l'azione coreografica era sostanziata dall'Ensemble Arte musica. L'invettiva veniva recuperata contrariamente da Lisa Ferlazzo Natoli e Gianluca Ruggeri per omaggiare la Rivoluzione d'Ottobre con l'overture Les Adieux! Parole salvate dalle fiamme .

 

 

Ma per tornare a De facto , si parlava di una derivazione che va oltre il teatro di narrazione e non si basta della sola idea del teatro musicale. Qui i fatti hanno la loro pregnanza, hanno il peso specifico di un valore in sé. Ma allo stesso tempo l'impalcatura dentro la quale sono calati ha la stessa importanza, in quell'equilibrio raro perfettamente sintetizzato da una visione mediale, quasi fantasmatica. È straniante l'insieme che ci permette di connetterci a una impropria oratoria del discorso inquisitorio alla Peter Weiss, senza quell'abuso di parole, certo, ma ne ricordiamo il tempo della denuncia; oppure, per tornare alle origini di una delle anime artistiche di questa compagine che si nutre e viviseziona il performativo dentro l'arte visiva, ovvero Fiorenza Menni, impegnata in melologhi o in concertazioni poetiche in omaggio a Majakovskij quando militava tra le fila del Teatrino Clandestino, lo spazio del concerto di parole e strumentazioni analogiche e digitali erano già parte del DNA che oggi connatura il segno di Ateliersi. Qui siamo difronte a uno dei tanti misteri del nostro Paese, terreno impervio della strage di Ustica, entrando a gamba tesa sulla trattazione della sentenza del giudice Rosario Priore del 1999. Lo spazio scenico mostra la sua preferenza al live set con tanto di flou di luci algide. La partitura drammaturgica ricostruisce una narrazione sulla base della sentenza e con un afflato lineare, in una inedita relazione con lo spettatore, il quale diventa sodale emotivo e depositario di quelle verità del disastro colposo. C'è una misura scelta, sempre sobria e puntuale, in contrappunto alle metafore dei segni che vanno a prodursi, così da realizzare uno spettacolo potente – appunto - e commovente. Gli attori si alternano nella tessitura sonora, una corale fatta di silenzi, accenti narranti e quadri visivi sintetici. Stiamo parlando di un teatro di memoria aggrovigliata di arte e significati multipli, dove politica ed estetica riannodano i fili di un'epoca che voleva sentirsi post agli ‘anni di piombo', ma che di fatto era ancora dentro le brutture del fiato stragista che ha connotato l'Italia fino a Capaci. Lo spettacolo cammina su una traiettoria binaria: da una parte la lucida requisitoria che alza il tiro poetico anche grazie – si diceva – alla capacità degli interpreti di rendere prossimale l'azione scenica; dall'altra, la misura ‘concreta' di un contest, appunto, di grande impatto che trasforma il disegno da lounge in una sala operatoria ove si viviseziona una tragedia italiana.

 

 

De facto

di e con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi

con Francesca Pizzo

composizione e esecuzione musicale Caterina Barbieri

immagini video Giovanni Brunetto

immagine e grafica Diego Segatto

suono Vincenzo Scorza

in collaborazione con Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica

RomaEuropa Festival, La Pelanda, Roma, dal 25 al 27 ottobre 2017