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Diatriba d'amore contro un uomo seduto

di Alfio Pertrini

Un grande scrittore di racconti che ha prodotto un piccolo testo di teatro. Un testo di teatro che è stato messo in scena sulla base di una “ideazione” che ha escluso la regia. Una “ideazione” che si è concretizzata il giorno della “festa della donna” in funzione del talento di un'attrice legato alla tradizione immobile. Sto parlando di “Diatriba d'amore contro un uomo seduto” di Gabriel Garcia Marquez, con Maria Rosaria Omaggio, in scena dal 5 all'8 marzo al Teatro Palladium di Roma.

Desideravo essere sorpreso. Avevo il presentimento di un buon pezzo di teatro e pensavo che mi sarei trovato di fronte a quella “realtà esagerata, fuori del comune” che Marquez chiamava realismo magico . Vado a teatro per essere sorpreso. Vado a teatro per provare emozioni. Se le emozioni non mi sorprendono, mi annoio.

La presunta felicità borghese del matrimonio, la trama dei compromessi, le delusioni, i tradimenti sono temi con i quali si possono destare sorprese. Perché no? Si può suscitare interesse e regalare emozioni affrontando drammaturgicamente qualunque tema, raccontando qualunque storia, anche la più semplice e banale storia di uomini e di donne, a condizione che non si vada alla ricerca della verità (che non esiste), ma che si trovi il modo per conquistare la autenticità delle forme teatrali. Questo è il problema.

Il “coraggio” e la “determinazione” (come suggerisce il programma) della donna tradita e delusa dal maschio, non sono riusciti a conquistare il cuore e la mente dello spettatore accorto. Ci vuole ben altro di un dettagliato racconto di fatti e di situazioni di coppia per possederlo e amarlo nella sua interezza. Non basta un calibrato flusso di belle parole per renderlo interprete creativo della visione del mondo offerta dal drammaturgo e/o dall'attore/autore dell'evento. Parole, parole, parole. Una messa in scena (perché non una messa in vita ?) di parole che non sono diventate corpo e sangue del processo di comunicazione. Musiche “colombiane” d'atmosfera che mai, neppure per un attimo, s'intrecciano in una prospettiva intermediale e sinestetica con gli altri codici. Oggetti che accompagnano in modo descrittivo le parole. E uno spazio scenico pieno di suoni articolati e inarticolati, immerso in una penombra vagamente poetica e apparentemente neutra, quasi a cercare la insignificanza del codice espressivo luminoso.

Solo tre minuti di teatro, alla fine, quando la donna esce dal suo bozzolo. E un oggetto affascinante. Dico l'abito di Graciela che somiglia al camino di un opificio da cui fuoriesce l'accesa materia verbale della condanna e della ribellione femminista.

In grande sintesi: una diatriba d'amore contro un uomo seduto, che potrebbe rovesciarsi in una diatriba d'amore contro una donna seduta, che ha lasciato lo spettatore inerme sulla poltrona del teatro, facendolo sentire inutile.