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Dove tutto è stato preso

 

di Letizia Bernazza

 

 

« Un germoglio di quercia è piantato dentro un vaso prezioso che dovrebbe accogliere soltanto fiori delicati; le radici si espandono, il vaso si spezza ».

Ho pensato molto alla frase di Goethe che Tamara Bartolini e Michele Baronio hanno scelto di mettere, quasi fosse un sottotitolo, al loro lavoro Dove tutto è stato preso , presentato al Teatro Brancaccino di Roma in occasione del prestigioso Festival Teatri di Vetro diretto da Roberta Nicolai.

Un pensiero - quello del noto scrittore, drammaturgo e poeta tedesco – che ha ‘dimorato' dentro di me per giorni: prima di aver partecipato allo spettacolo perché l'immagine di quel ‘germoglio di quercia' ha avuto il potere magico di risvegliare nel mio cuore e nella mia mente, emozioni e riflessioni. Quanto siamo disposti ancora a non avere cura di nulla e a non riuscire a preservare il prezioso ‘dialogo con il vivente', come direbbe il filosofo del paesaggio Gilles Clèment, al cui percorso, peraltro, si ispirano i due autori-attori? Durante e dopo lo spettacolo, perché, da spettatrice, mi sono sentita empaticamente coinvolta dentro un flusso - drammaturgico e attoriale - di autentica vitalità che ha saputo mettermi in relazione con un Mondo dove ormai ‘tutto è stato preso' e dove, tuttavia, c'è una via d'uscita: la ‘possibilità di curarne le rovine'.

Bartolini-Baronio riescono a dare un originale respiro poetico ai temi trattati, urgenti per la loro stessa necessità ‘collettiva', che hanno bisogno di avere una credibilità autoriale e attoriale per essere recepiti. A mio avviso, la coppia di attori coglie l'obiettivo. Dove tutto è stato preso restituisce con organicità il possibile atto dell'Essere umano di dare un senso al proprio stare su questa Terra. Ed è il richiamo continuo ad ‘essere presenti' e a risvegliare in noi la non tanto remota perdita del ‘tutto', a farci prendere coscienza della contraddittoria realtà in cui viviamo al fine di renderla diversa e migliore, se lo vogliamo, e a spingerci ad appropriarcene di nuovo.

La parola ‘casa' risuona come un leitmotiv nello spettacolo. Cos'è la casa, domanda costante sulla quale si interrogano i due attori? Il luogo in cui siamo nati? Dove scegliamo di trascorrere la nostra esistenza? La famiglia che ci accoglie? Domande così potenti per la loro stessa semplicità che invitano a proteggere con amorevole premura ogni spazio, privato e comunitario, abitato da esseri viventi.

All'inizio della messinscena, mentre noi spettatori facciamo il nostro ingresso nella sala, i due attori sono sdraiati a terra, abbracciati l'uno all'altro, illuminati da un cono di luce appena velata. <<Ma in attendere è gioia più compita>>, direbbe Montale. La dimensione dell'attesa avvolge con incantevole suggestione interpreti e partecipanti. Un'attesa che richiede tempo per mettersi all'ascolto dell'altro. I due attori aspettano, senza mai perdere la concentrazione, il nostro prendere posto; noi attendiamo il loro ‘agire' e il loro ‘pronunciarsi'. L'area destinata alla rappresentazione è pressoché ‘vuota'. C'è soltanto una struttura semplice di metallo cui sono appesi body per neonati. Sull'immagine di quell'infanzia, forse negata per sempre se non proviamo a rimettere insieme i pezzi del nostro ‘paesaggio interiore', iniziano a risuonare monologhi e brevi dialoghi. Le fonti di ispirazione dichiarate da Bartolini-Baronio si intrecciano con gradevole finezza nell'impianto di Dove tutto è stato preso , che si nutre <<del romanzo Correzione di Thomas Bernard, delle visioni della casa-giardino di Gilles Clément, dei sensi amorosi di Maria Zambrano, della tragica delicatezza di Louise Bourgeois, del cosmo umano di Werner Herzog, delle biografie di adulti e bambini incontrati durante le residenze e i laboratori>>.

Il filo conduttore è chiaro ed efficace: dobbiamo provare a inseguire l'idea di una ‘ricostruzione' della nostra umanità dove è l'individuo, con le sue stesse possibilità, a dis-velare e modificare il reale. Non possiamo permettere di essere divorati dai tarli. Da una polvere opprimente che ci toglie il respiro e che è la prova di un arrendersi, di un lasciarci risucchiare dai detriti di una società incapace di garantire una casa, un lavoro, una vita dignitosa. L'attrice scuote i body. Lo spazio scenico viene avvolto da una nuvola bianca. Inammissibile capitolare. Inammissibile soccombere di fronte a chi vuole abituarci a un Mondo malsano. Inammissibile essere soffocati e privati del nostro legittimo essere felici. L'Essere sta dietro ad ogni sua stessa possibilità, direbbe la Zambrano. Ed è da qui - dal fatto che <<un'opera può avere un'anima perché ha il potere magico di provocare una reazione nell'osservatore>>- parole di Louise Bourgeois - che in un spazio costruito e de-costruito con estrema semplicità dagli attori (non c'è bisogno di molto, in fondo, se quel poco ci è già stato sottratto!) dove trovano posto una sedia, un tavolo, una essenziale struttura di metallo, a farsi strada un movimento incessante, energico e fruttuoso, del destino esistenziale unitario. L'Uno che si riconnette al Tutto. Il Singolo che, malgrado sia stato espropriato dei suoi stessi bisogni, aneli con sano ottimismo a ri-disegnare per se stesso e per le generazioni future uno spazio-tempo in cui vivere una realtà più autentica. Il loop musicale in crescendo - eseguito con la chitarra elettrica da Michele Baronio – insiste, come i dialoghi non persuasivi tra i protagonisti o i loro monologhi volutamente ‘disarticolati', a far rimanere noi spettatori in un ‘ciclo continuo' che si auto-riproduce in sequenza e che amplifica la dimensione di una tangibile precarietà. Una ‘circolarità' infinita che, però, è in grado di essere interrotta. Il significato ultimo di Dove tutto è stato preso risiede, infatti, in una fattibile via d'uscita. Nulla è definitivamente perduto. Tutto si può modificare. L'importante è tracciare un percorso: l'amore e la sollecitudine per l'Universo che abitiamo, l'adesione costante con gli Altri per difendere il legame profondo che ci stringe alla nostra comunità di appartenenza. Ciascuno di noi ha necessità di una casa, di un rifugio da ‘invocare' per pretendere il futuro. Non è questo il tempo per la rassegnazione anche se, il doloroso imperversare dell'epoca che viviamo sembrerebbe esortarci, cinicamente, a ignorare le urgenze esistenziali più elementari.

Esco dal Teatro Brancaccino e percorro le strade dell'Esquilino. Vengo sprofondata nell'abbandono della mia città. Senza tetto indifesi prendono posto per la notte. Risuonano ancora dentro di me le parole enunciate dagli attori durante lo spettacolo. Alle loro frasi e a quella di Goethe, si uniscono nella mia memoria i versi di Mariangela Gualtieri: <<Quello che siamo/ è prezioso più dell'opera blindata nei sotterranei /e affettivo e fragile. La vita ha bisogno/ di un corpo per essere e tu sii dolce/ con ogni corpo…Ringraziamo. Ogni tanto,/ Sia placido questo nostro esserci -/questo essere corpi scelti/ per l'incastro dei compagni/d'amore>>.

 

 

 

Dove tutto è stato preso

di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio
drammaturgia Tamara Bartolini
scene e paesaggio sonoro Michele Baronio
collaborazione al progetto, assistente alla regia e foto Margherita Masè
collaborazione artistica Fiora Blasi, Alessandra Cristiani, Gianni Staropoli
suono Michele Boreggi
concept video Raffaele Fiorella

altre foto di Lucia Baldini

regia Tamara Bartolini/Michele Baronio

Teatro Brancaccino, Roma, 20 e 21 ottobre 2017