“…E poi sono morto”
di Alfio Petrini
Nell'anno 2001 Francesco Silvestri, drammaturgo, sceglie - dopo “ Piume” - di non scrivere più per il teatro. Sceglie il silenzio.
Questa annotazione nasce dalla lettura del libro “… E poi sono morto - La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri” , di Vincenzo Albano, che comprende una bella introduzione di Paolo Petroni e una pstfazione di Antonia Lezza che scrive, tra l'altro, cose interessanti sulla tendenza di Silvestri “al sogno, al delirio, ma in particolare quella visionarietà” che “conduce anche a quella dimensione omosessuale che viene rappresentata dall'autore senza metafore, attraverso il linguaggio della poesia” (Libreria Dante e Descartes, 2013).
Una nota a margine, questa, per un silenzio drammaturgico, dunque. Un piccolo gesto (il mio) per un grande gesto (il suo). Un piccolo silenzio riempito (piccolo in rapporto alla vastità del mondo) per un grande potenziale espressivo.

Nell'epoca felice in cui viviamo volano milioni di parole e d'immagini al secondo nel tentativo, spesso vano, di forare la comunicazione. La parola d'ordine è comunicare. Sognare di esprimersi. Affermare l'identità, anche senza sapere cosa sia. Andare alla ricerca della verità. Del successo. Della ricchezza. Dell'apparenza più che dell'appartenenza. Il che spesso vuol dire navigare come nave senza nocchiero sul velo della superficie. Essere è comunicare. Essere è apparire. E allora, ci affanniamo, ci agitiamo, lottiamo, pretendiamo l'ascolto degli interlocutori senza ascoltarli e finiamo per alzare la voce, per sovrapporre parole a parole, per vincere sull'altro. Nell'era della comunicazione comunichiamo? Nell'epoca felice in cui viviamo ci dà davvero felicità la comunicazione? Ci danno la felicità agognata le parole che riempiono i silenzi o, meglio, i silenzi che rendono inutili le parole?
“Ho in mente soltanto silenzio”, dice il nostro drammaturgo in una intervista concessa all'autore del libro. Già, il silenzio. Il silenzio delle cose e degli uomini. Sono davvero silenti le cose e gli uomini che non dicono parole? Sono muti? Sono neutri? Sono deprivati di senso? Il corpo umano parla. Il corpo umano pensa e parla. Pensa e parla anche quando non pronuncia parole. A che serve il silenzio che parla? Serve a dire l'indicibile. Sarebbe ben curioso che l'indicibile parlasse attraverso le parole dicibili, contando solo sul logos della parola che - pronunciata -, dice, spiega, descrive. Anche gli uomini che ricorrono al silenzio parlano. E chi ricorre al silenzio? Chi non ha niente da comunicare, si potrebbe dire, ma non è vero in assoluto. Ci sono tante persone che non hanno niente da dire, e da dirci, eppure ci frastornano con le chiacchiere. Penso che facciano buon uso del silenzio le persone che - in determinati momenti della loro vita -, hanno poco da comunicare, da esplicitare, da raccontare, da spiegare, e molto da esprimere, come Francesco Silvestri.
E' vero che un uomo vive quando parla, quando comunica, e poi - quando muore - non parla più? Beh, ci sono degli uomini che parlano anche dopo che sono morti. Anzi, parlano più da morti che da vivi, con fatti e con parole, e con le parole dei fatti. Silvestri ha fatto per molti anni largo uso di parole scritte e di parole parlate, poi ha scelto il silenzio. Qual è la ragione di una scelta così radicale? Qualche amico lo ha coinvolto in alcuni progetti in veste di attore, ma nessuno dal 2001 in poi è riuscito a fargli tornare la voglia di praticare la scrittura drammaturgica. Non c'è riuscito, perché non voleva neppure, forse, ma soprattutto perché era impossibile fare il miracolo.
Un drammaturgo non scrive un testo linguistico su commessa, e basta. Lo stimolo è importante, ma molto più importante è la necessità : la necessità artistica. L'autore deve sentire il bisogno di scriverlo il testo, deve avvertire il pungolo del piacere alla gestazione e alla gestione della materia linguistica in funzione di un rapporto di collaborazione con la scena. Il testo linguistico non è, dunque, figlio di un atto di volontà, ma di un atto di necessità, che coinvolge la parte materiale e immateriale dell'essere umano. E se la necessità non c'è, viene a mancare la sollecitazione più importante, la causa primaria dei fermenti interiori, e la conclusione è quella che conosciamo: il drammaturgo non scrive.
La decisione di Silvestri è perfettamente comprensibile, dunque. E vera. Non scaturisce né da un movimento di debolezza né da un movimento di paura. E' un atto di sincerità. Un atto di verità e di disvelamento, con il quale lo scrittore ci comunica segretamente che non sente più il bisogno di comunicare, ma di esprimersi. Questo non implica la totale interruzione dell'attività di scrittura, ma la totale interruzione della scrittura di testi linguistici destinati al teatro. Silvestri scrive altre cose, raccoglie appunti legati alla sua esperienza di vita: fatti che lo riguardano e lo coinvolgono totalmente, direttamente, senza alcuna mediazione. Il “caso” Silvestri porta con sé il rifiuto netto della mediazione dei personaggi, dietro ai quali non si nasconde più - come faceva una volta - assegnando loro idee, sentimenti e punti di vista che gli appartengono. Spazza via ogni aspetto della comunicazione teatrale. Elimina il teatro per ritrovare il senso della vita. Ci mette di fronte ad un processo di trasformazione che genera livelli profondi di consapevolezza e di efficacia operativa. Il drammaturgo, finalmente e totalmente liberatosi dalla schiavitù della finzione scenica e dal meccanismo della rappresentazione scopre nel silenzio riempito una nuova prospettiva, intima, essenziale, quella del performer, dell'attore/performer, il quale - se volesse -, potrebbe compiere azioni performative originali, dotate di una potenza espressiva qualitativamente e quantitativamente superiore a quella dell'attore della tradizione immobile.
Allora, è proprio il caso dire: “… E poi, dopo essere morto, sono rinato ”.
Maggio 2014
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