L'inatteso
di Alfio Petrini
“L’inatteso”
di Fabrice Melquiot è un testo linguistico che fa parte
del progetto Focus Melquiot, curato da Elena di Gioia, con la
partecipazione di Anna Amadori, nell’ambito della sesta
edizione di Face a Face – Parole di Francia per scene d’Italia,
promossa dall’Institut Français Italia.
La protagonista assoluta della storia è Liane: una donna
innamorata che parla con il suo uomo. L’uomo è scomparso,
è stato inghiottito da un fiume nel corso di una guerra.
“L’inatteso” è l’impalpabile che
ritorna. E’ l’invisibile sottoposto ad un processo
di astrazione che radica la scrittura drammaturgica nel genere
del teatro di memoria con un racconto di sentimenti, emozioni,
ricordi e qualche rimembranza.
Il testo di Melquiot è lineare, logico, consequenziale.
Ed è scritto in versi, secondo una pratica che guarda alla
dimensione poetica dello spettacolo a cui rimanda. L’autore
ha lavorato sulla parola, delegando l’attore/danzatore alla
costruzione del testo fisico. Non sempre è possibile farlo.
Non sempre i risultati risultano soddisfacenti. Non sempre si
riesce a stabilire un proficuo rapporto di collaborazione tra
testo e scena, così da limitare e circoscrivere la scrittura
scenica a una pratica che trasforma la parola scritta in parola
parlata. Sarebbe meglio che il drammaturgo scrivesse seguendo
una metodica che implichi prima la scrittura del testo fisico
e poi la scrittura del testo verbale. ll drammaturgo scrive per
l’attore/danzatore, non scrive pensando allo spettatore.
La questione è di rilevante interesse. Lo scrittore che
pensa allo spettatore insegue come fine ultimo il messaggio, mentre
lo scrittore che lavora sulla partitura fisica e poi sulla partitura
verbale del testo ha lo sguardo rivolto all’atto totale
dell’attore/danzatore, mette in preventivo gli stimoli esterni
rappresentati dalle azioni fisiche e si pone la questione della
rappresentazione del materiale e dell’immateriale.
Ma tant’è, ciascun drammaturgo è libero di
scrivere come ritiene più opportuno, con la sua tattica
e la sua strategia. Melquiot ha scelto la linearità e la
consequenzialità del racconto, ha scelto il dominio della
parola-concetto, la comunicazione di un messaggio, la rete di
robusti segni verbali, l’aura poetica della parola al posto
della poesia desumibile dalla scena, la mimesi invece della ri-creazione
della realtà. La legittimità di queste scelte risiede
nel fatto che non esiste il teatro, ma tanti teatri, tante drammaturgie,
tanti pubblici. E tra i teatri possibili c’è ovviamente
il genere di teatro ipotizzato da Melquiot, che è peraltro
largamente diffuso, che ha molti praticanti appassionati, ma che
non ha niente di nuovo da dirci sul piano artistico, culturale,
linguistico.
Le metodiche di scrittura drammaturgica non sono ovviamente neutre.
E le differenze sono sostanziali. Non bisogna tuttavia dimenticare
che rappresentano delle opzioni, non sono formule magiche che
garantiscono il migliore risultato possibile. Ci sono spettacoli
interessanti fondati – tanto per fare un esempio - sui processi
di astrazione e spettacoli noiosi incentrati sui processi organici,
e viceversa. In questa sede, non avendo visto lo spettacolo realizzato
con il testo del drammaturgo francese, devo attenermi a quanto
mi suggerisce il testo linguistico. Quindi, mi limito a dire che
“L’inatteso” conferma la persistenza in terra
di Francia di pratiche estranee alle modalità più
innovative di scrittura drammaturgica, legate alla letteratura
del teatro. Una estraneità e un vincolo che rendono la
tradizione teatrale francese oggettivamente immobile.
Ragionando ancora sul versante della scrittura drammaturgica,
si può dire che l’opera che trascura il fondamento
prioritario della tessitura fisica rischia di pagare un prezzo
notevole sul versante del rapporto tra l’invisibile e il
teatro. Se il testo è frutto di un processo di smaterializzazione
o di scorporizzazione della scrittura drammaturgica, il corpo
dell’attore/danzatore diventerà un corpo che non
potrà contenere nel mondo fisico altri mondi: “mondi
ulteriori di corpi immaginari e simbolici, di corpi possibili,
visibili e invisibili”, come sostiene in modo convincente
Caterina Di Rienzo. E l’attore/danzatore cosa dovrà
fare? Sarà costretto a sovrapporre il suo testo fisico
al testo verbale del drammaturgo, mettendo a rischio “la
collaborazione tra testo e scena”. Trattando questo tema,
Franco Ruffini fa una considerazione semplice quanto illuminante
a proposito delle emozioni e dei sentimenti: l’emozione
non è la descrizione di una percezione fisica, ma è
“l’insieme delle azioni fisiche che la costituiscono”
e che il drammaturgo mette in preventivo, cioè a disposizione
dell’attore/danzatore. Ho visto molti spettacoli, incentrati
sulla sovrapposizione violenta delle strutture (prima verbale,
del drammaturgo e dopo fisica, dell’attore), fallire clamorosamente.
Una sovrapposizione che di solito tende a caricarsi e ad appesantirsi
di segni simbolici che producono un effetto di respingimento.
La poesia, si sa, non va confusa con l’aura poetica. Scrivere
un testo in versi non vuol dire fare poesia. Si può fare
poesia senza un testo scritto in versi, “perché la
poesia scenica non dipende dalla parola scritta in versi e portata
sulla scena, ma dalla capacità di fare poesia con la scena”,
come sostiene correttamente Marco De Marinis.
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