La notte poco prima delle foreste: il corpo a corpo di Favino con le parole di Koltès
di Katia Ippaso
Foto di Daniele Barraco
«Giravi l'angolo della strada quando ti ho visto, piove, non fa proprio piacere quando ti piove sulla testa e sui vestiti». L'accento è inventato. La lingua affascinante. A parlare è uno straniero, certamente. Siamo al Teatro Ambra Jovinelli, al buio. Sul fondo del palcoscenico, bagliori di una notte argentata. Dopo pochi istanti, si accende delicatamente la luce in teatro: un abbraccio chiaroscurare unisce palcoscenico e platea. A quel punto ci sentiamo esposti, così come siamo l'uno accanto all'altro, abbiamo anche un po' freddo, l'uomo ci ha avvisato, piove e abbiamo i vestiti bagnati. Ora guardiamo bene in faccia chi parla. È Pierfrancesco Favino e sta interpretando il monologo di Bernard-Marie Koltès, La notte poco prima delle foreste . Lo sappiamo tutti che Favino è un attore bravissimo che vuole andare in profondità. E sappiamo anche che Lorenzo Gioielli è un regista dedicato alla difficile arte della direzione d'attore: ogni volta scova un nuovo modo per disfarsi di sé, non cerca l'effetto e ambisce a porre lo spettatore al centro di ogni cosa. Quello che non sapevamo è fino a quale punto di densità espressiva si potessero spingere questi elementi.
La notte poco prima delle foreste è un testo che Koltès, uno dei più grandi drammaturghi di lingua francese, scrisse nel 1977, un duro attacco ai sistemi di segregazione. In questi quarant'anni i muri si sono moltiplicati e il tema dell'accoglienza e dell'espulsione si stende come petrolio su ogni conversazione quotidiana. Eppure qui non si parla di attualità, ma di immedesimazione, di esperienza rituale.
Foto di Fabio Lovino
Favino è solo con le parole di Koltès che ha splendidamente tradotto e adattato, spinto da un richiamo inconscio: «Non sono io, la sua vita non è la mia, il suo racconto mi porta in strade che non ho camminato, in luoghi che non ho visitato». Nel combattimento corpo a corpo con il testo, che ha significato cercare per più di un mese, giorno e notte, assieme al regista, la giusta attitudine per raggiungere l'esattezza emotiva del personaggio, accompagnato da null'altro che da una sedia e da una musica lieve che sale solo nel finale, l'interprete ci mette nella condizione di vedere tutto ciò che il suo straniero incontra nel suo camminamento deragliato: ragazze bionde che fanno retate contro i neri, la vecchia vestita di giallo, il branco inferocito che attacca il più debole, il generale nascosto con suo cuore di tenebra nella foresta del Nicaragua.
« Non c'è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, /che valga una camminata senza fine per le strade povere/ dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani»: salgono alla memoria i versi di Pasolini. Quest'uomo che ci sta parlando è disgraziato e forte, fratello dei cani. Però non vuole restare solo. No, lui sta correndo dietro a qualcuno che ha appena svoltato l'angolo: un angelo con la faccia da bambino, un innocente che non ha ancora detto una parola (l'innocenza si dà solo prima di ogni Logos). Più che una stanza in cui dormire, lo straniero di Koltès-Favino cerca un altro con cui passare questa notte tempestosa, dove gli animi sono sconvolti e la violenza può solo portare altra violenza: «Appena ti ho visto girare l'angolo, ho corso, ho corso, perché non mi trovassi in una strada vuota di te, perché stavolta io non ci trovassi solo la pioggia, perché avessi il coraggio di gridare: amico, fammi accendere amico». Lui ci dice ‘amico' e pensiamo a tutte le volte che ci siamo anche noi sentiti senza casa, esposti, bagnati dalla pioggia, soli, derisi, o a tutte le altre volte che abbiamo deriso, escluso, buttato qualcuno fuori dalla porta. E a quella ‘notte poco prima delle foreste' in cui alla fine non avremmo voluto altro che essere fermati per strada da qualcuno che ci portasse via.
La notte poco prima delle foreste
di Bernard-Marie Koltès
con Pierfrancesco Favino
regia Lorenzo Gioielli
Teatro Ambra Jovinelli, Roma, fino al 28 gennaio 2018
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