Le radici profonde della ricerca teatrale 2.0
di Laura Novelli

Nell'ultimo decennio, Editoria&Spettacolo ha pubblicato, all'interno della collana Spaesamenti diretta da Paolo Ruffini, tre volumi sulla scena contemporanea intitolati Iperscene (a cura di Mauro Petruzziello, 2007), Iperscene 2 (a cura di Jacopo Lanteri, 2009) e Iperscene 3 (a cura di Matteo Antonaci e Sergio Lo Gatto, 2017).
Il più recente dei tre si pone ovviamente in un rapporto di continuità con i precedenti e ne costituisce un ulteriore approfondimento, sia in termini teorici (oltre ai contributi dei due curatori vi figurano saggi di Renato Palazzi, Simone Nebbia, Andrea Nanni e un'illuminante postfazione dello stesso Ruffini) sia in termini – per così dire – di cronaca spettacolare.
L'idea di base dell'intera operazione è quella di testimoniare, attraverso materiali e interviste, il lavoro di alcune realtà del teatro e della performance italiane contemporanee per indagarne le modalità operative, le estetiche e, tanto più, la velocità - da qui il prefisso ‘iper' (‘oltre') che le definisce sin dalla copertina - con cui esse cambiano e si trasformano (o non cambiano né si trasformano) rispetto alle generazioni artistiche precedenti. Lo studio del 2007 si concentrava, infatti, su gruppi come Città di Ebla, Cosmesi, Gruppo Nanou, Ouffouro e Santasangre; il successivo saggio rivolgeva il suo sguardo a compagnie quali Babilonia Teatri, Muta Imago, Dewey Dell, Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Sonia Brunelli, Ambra Senatore (raggruppate sulla base di alcune ‘comunanze estetiche o operative'); l'ultimo nato prende come oggetto di analisi il lavoro di cinque gruppi/artisti afferenti alla scena performativa più recente: Anagoor, Codice Ivan, CollettivO CineticO, Opera, Alessandro Sciarroni.
Si tratta di percorsi creativi tra loro molto differenti ma non privi di alcune affinità. D'altronde da sempre il ‘nuovo' a teatro (come nella cultura tout-court) mostra connessioni diacroniche e sincroniche con il passato e il presente. E non potrebbe essere diversamente: nessun artista è un'isola e nessuna pratica innovativa può nascere senza memoria (basti rileggere a riguardo l'importante lezione di Umberto Eco pubblicata da La Repubblica domenica 18 febbraio 2018).
Qual è allora lo specifico campo di indagine che questo volume si propone di affrontare? Parlando in termini semplici, potremmo sintetizzarlo ponendo un'altra domanda: cosa significa fare teatro e arte performativa (un certo teatro e una certa arte performativa) in un'era pervasa da quell'eccesso di esposizione mediatica, di comunicazione social , di informazione globalizzata, di simulazione invasiva in cui lo scatenato sviluppo tecnologico del terzo millennio ci ha scaraventati tutti? Le riflessioni teoriche proposte in Iperscene 3 (in particolare gli interessanti apparati introduttivi dei due curatori) si fanno largo nel mare magnum di questa questione sociologica e cercano di ragionare (e farci ragionare) lungo traiettorie impervie, al fine di rintracciare quelle idee estetiche e quelle modalità operative che meglio di altre sappiano raccontare le ‘opere' dei cinque gruppi citati e cosa le accomuni. Primo elemento di cui tenere conto: nel loro fare teatro, questi artisti non rompono con il passato. Semmai, essi utilizzano in modo nuovo modalità e materiali comuni anche alle generazioni artistiche precedenti. Secondo Antonaci e Lo Gatto, questa generazione ‘anni dieci' poco è cambiata rispetto alle realtà fotografate in Iperscene 2 e, tanto più, in Iperscene . Anche se, a ben vedere e proprio alla luce di due parole/chiave attualissime quali ‘Rete' e ‘Medium', un cambiamento forte, incisivo ed emblematico si può e si deve registrare. Nell'uso del ‘medium' teatro risulterebbe infatti cambiata la relazione stessa con lo spettatore/fruitore: prima pensato comunque come distante e contemplante, ora invece promiscuo con la creazione, attore egli stesso. <<Nel nuovo ambiente creato da Internet>> - scrive Lo Gatto citando Régis Debray - <<vicinanza, immediatezza, rapidità di contatto e sempre più precise opportunità di personalizzazione del racconto e della lettura della realtà e degli individui che la abitano caratterizzano l'attuale mediasfera , intesa come assetto e ambiente della trasmissione e del trasporto di messaggi e persone>>. Il teatro diventerebbe perciò un dispositivo di visione simile a un medium del Web 2.0, e lo spettatore sarebbe di conseguenza chiamato a decifrare una mappatura di segni mutevoli (lo spettacolo/la performance) in tempo reale. La sua presenza determinerebbe insomma il senso dell'atto teatrale stesso. E questo, proprio perché la realtà che ci circonda è quanto mai smaterializzata, si potrebbe pensare – quasi per ossimoro - come un luogo di ‘esposizione' del reale. Di qui tutte quelle declinazioni ‘biografiche' presenti in molti dei lavori di cui si parla nel libro.
Libro dalla struttura molto chiara e geometrica: per ogni realtà citata si riportano biografia, teatrografia, un'intervista agli artisti e un saggio critico (assente solo nel capitolo di Codice Ivan, gruppo scioltosi nel 2015). Dentro questa ossatura generale vengono poi posizionati i diversi sguardi e punti di vista con cui guardare l'oggetto di studio. Nel caso di Anagoor, ad esempio, sono soprattutto le arti figurative e il rapporto con il video a guidare la lettura dei materiali messi in campo. Il concetto di percezione spaziale sembra preminente nelle pagine dedicate a Codice Ivan, mentre sull'idea di dispositivo si muove la riflessione di e su CollettivO CineticO. Materia, corpo e parola sono i motivi dominanti dell'intervista a Vincenzo Schino che fa luce sulla produzione di Opera e, infine, l'indagine relativa ad Alessandro Sciarroni si arricchisce del ‘diario di viaggio' relativo alla creazione di Aurora.
Non poco importanti risultano poi i documenti fotografici: barlumi di teatro in vita che cercano di fermare l' hic et nunc del fatto scenico. Ed è proprio su questa immanente forza presente del corpo che ci riporta Paolo Ruffini nelle belle pagine conclusive, L'inefficacia della performance . Lette le quali, ci sembra di poter affermare che, al di là e a prescindere dai mutamenti massmediologici e tecnologici di questo confuso millennio, laddove ci sono un corpo e una visione assorta che lo guarda in attesa di ricavarne pensiero (o emozione), là c'è anche e sempre Teatro. E memoria di Teatro. Cambiano però i termini per definire questo accadere misterioso. <<Il titolo L'inefficacia della performance >> – scrive Ruffini – <<è un pretesto per ribadire quanto il discorso critico attraverso l'opera si serva di processi inediti. I quali stanno attribuendo una reale nuova accezione al lemma performance , così da lasciarlo in soffitta , riposto tra gli ammennicoli culturali di cui non sentiamo più il bisogno di servirci>>.
IPERSCENE 3
a cura di Matteo Antonaci e Sergio Lo Gatto
contributi Andrea Nanni, Simone Nebbia e Renato Palazzi
Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG), 2017, pp. 209, euro 16,00 |