Lo spazio residuo dello spettacolo
Divagazioni a partire dallo spettacolo Guerrilla della compagnia catalana El Conde de Torrefiel
visto al festival romano Short Theatre di Roma
di Paolo Ruffini
Ho osservato la fotografia
mentre lui osservava la bellissima giornata.
Jonathan Safran Foer
A fronte di una certa restaurazione che va configurandosi suoi palcoscenici italiani, né più né meno di una sorta di ritorno all'ordine nel ‘disordine' dei linguaggi che hanno polverizzato ormai matrici e scuole di pensiero nell'ultimo decennio scenico, si stanno configurando alcune attitudini proprie della creazione artistica di natura performativa. Si potrebbe azzardare di definire sbilanciamenti percettivi queste configurazioni della performance, soprattutto speculativi, che stanno indagando da una diagonale inusitata o almeno non sclerotizzata le forme e il portato esistenziale di autori (alcuni) che giocano a rimpiattino col mercato, senza esserne schiavi (nell'immaginario e nella dipendenza produttiva). E mostrano il fiato le definizioni di cui ci siamo serviti sino ad oggi per decodificare processi o lavori, le cui derivazioni hanno assecondato fino a poco tempo fa un impianto teoretico e analitico che ha retto per via del consolidamento di mutuo scambio (anche politico) fra comparti del sistema dello spettacolo dal vivo, avanzando una presunta morale della sperimentazione come strascico, ultima faglia di un regresso avanguardistico. Il mondo non è cambiato, che ci piaccia o meno è così; possiamo emendarlo o – come la tradizione ebraica insegna – ripararlo , oppure possiamo aderirvi, resilienti in quella progressione delle trasformazioni che assorbono lo spazio post sociale non senza qualche fatica. È l'ultimo Novecento, nella sua nuova versione ultra mediale forse esemplificato e ripulito da ammennicoli retorici ma, di fatto, presente a se stesso ancora nel gorgo dei conflitti e delle follie dell'umano che sta tentando di disincagliare il suo panteon di miti e archetipi nell'ideologia di una civiltà usurata. Ciò che Peter Sloterdijk chiamerebbe l'intreccio di senso tra sviluppo tecnologico e osservazione psicologico-antropologica del reale , ovvero ciò che resta «dell'impazienza epocale del XX secolo» che come un fiume carsico supera i confini limitanti del concetto di Novecento, in una logica tutta occidentale di cui si è servito il cosiddetto secolo breve nel semplificare i propri abomini. Restaurazione, dunque, di quella idea di Scena Occidente , come l'illuminante libro di Antonio Attisani perimetrava a metà degli anni Novanta (edizioni Cafoscarina) e che segnava il passo di una generazione teatrale che oggi riesce a raccontare poco o niente, già allora indicando un sano equilibrio fra tradizione razionalista e illuminista (che genererà poi la globalizzazione dei desideri) e gli ectoplasmi dell'impermanenza scenica. D'altronde, «se il XX secolo aveva messo all'ordine del giorno la realizzazione dei sogni della modernità, senza fermarsi a interpretarli, allora il XXI secolo, così contiguo da confondersi con il precedente, dovrà cominciare da una ‘nuova interpretazione dei sogni'. Se non vuole ancora vivere con gli spettri» (1). Del Novecento non ci trasciniamo soltanto certe abitudini apologetiche, come dire una scena educativa e piagnona che avverte del pericolo lo spettatore come un complice che fa il palo durante una rapina, o ancora meglio il bello esercizio che si permette persino qualche sbavatura a comando tanto per irrigidire un vuoto di senso che di per sé non è un vuoto voluto ma una mancanza di argomenti (e questo vale in particolare per la danza). Il Novecento del XXI secolo nel mettere in luce una crisi dell'umanità e dei diritti ad essa costituzionalmente legati, consolidati nei rispettivi contesti in cui si è evoluta la libertà del singolo in una coscienza etico-democratica collettiva, non è riuscito a proporre un pensiero che superi lo sbilanciamento attuale verso l'individualismo e la tutela del capitale finanziario che lo rappresenti. La scena, da questo punto di vista si allinea nelle retoriche della nuova bellezza che altro non è che il tentativo (si diceva) di riparare il mondo dalla proprie brutture. E per scena si intende non soltanto ciò che si decide di far accadere in un determinato posto a un determinato momento (e con qualcuno di prestabilito), ma la spazialità degli orizzonti, il superamento dei confini, la dismisura nella misura della ‘composizione' artistica, il disegno urbano nella sedimentazione di sovraccarichi sociali (che generano conflitti) dei riassetti urbanistici, al centro come nelle periferie delle metropoli mentali, oltreché fisiche. Raccontare questa inedita dimensione del presente, allora, significa lasciarsi alle spalle quell'insieme di parole d'ordine e di convenzioni sulle quali si erano rette tutta una serie di imposture che chiamiamo tradizione, il concetto del quale sappiamo bene senza ipocriti infingimenti si regge – come direbbe Eric J. Hobsbawm – sulla routinizzazione o burocratizzazione, specie ai livelli subalterni, in cui l'immutabilità delle procedure viene di regola considerata come il miglior criterio di efficienza (2); si regge soprattutto sulla configurazione di un potere (delle forme, degli insegnamenti e delle relazioni politiche) restio a permettere l'affacciarsi di un pensiero liberato ogni qualvolta l'affaticamento creativo presenta il conto. In parole povere, il nostro Paese è governato da una rendita di posizione ormai sfilacciata ma che si sostiene (paradossalmente) a causa di una moltitudine artistica impoverita di idee. In questo quadro, certamente non consolante, dove ‘l'impegno è cool' titolava un articolo di Vincenzo Trione a proposito Banksy e della sua arte che recupera una forma differita di ready-made e mostra soprattutto opere realizzate da altri writer, fotografie rubate in giro per il mondo (3); in questa dislessia visiva che sovrappone il colore e un immaginario spesso banali ai ruderi di una urbanizzazione feroce e cementificata (poche le intuizioni che sanno invertire la didascalia del pensiero sugli spazi), e reitera comportamenti scenici sempre uguali a loro stessi nell'affermazione così come nella contrapposizione (si pensi all'esaltazione del macchinico inventario di ‘comportamenti' mainstream chiamati sregolatezze del ballerino Sergei Polunin); in questo contesto di millantate sperimentazioni linguistiche e approdi prosaici anche dei più giovani, possiamo riferirci a pochi barlumi di resistenza.
Cosa accade nello spettacolo della compagnia catalana El Conde de Torrefiel chiarisce immediatamente di quale impostazione stiamo parlando. Non è più sufficiente argomentare l'impianto drammaturgico di Guerrilla (questo è il titolo) – come molti ormai hanno la facilità a fare – come un'esperienza post-drammatica, ovvero figlia della lettura che ne dà il teorico Hans-Thies Lehmann a tutti quei percorsi estetici e scritturali che hanno sovvertito il senso dei processi registici tra la fine del Novecento e il nuovo millennio, anche in virtù del fatto che quella disamina della struttura dello spettacolo contemporaneo e il suo ‘ruolo' nella società sono stati abbondantemente affrontati sin dalla fine degli anni sessanta qui in Italia (se Guerrilla è post-drammatico quanto e come l' Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio, lo era alla stessa stregua allora anche il Pirandello, chi? di Memè Perlini. Mentre per il rivoluzionario Amleto le questioni linguistiche si complicavano, proponendo non solo un immaginario ma una forma del tutto inedita, per gli altri due, invece, e forzando la mano, lo spazio concettuale è lo stesso). Ma è pur vero, al contempo, che lo spazio di mediazione fra opera e spettatore ha una propria specifica che i catalani rimarcano con indipendenza da tutte le appartenenze stilistiche o poetiche. Dunque non si pone una questione di denominazione o di appartenenza a una categoria estetica, ma di efficacia contenutistica (relazionale diremmo più avanti) di uno spettacolo portentoso per la sua volontaria inattualità . Diviso in tre momenti persino autonomi, quasi tre tempi in un tempo dilatato, Guerrilla è un non-racconto che si snoda tra ribaltamenti di campo fra l'osservato e l'osservatore e in cui i piani si intersecano sino a vanificarne lo status di entrambi; sono poi i temi affrontati la vera questione, per cui il giudizio che si dà sul tempo storico che viviamo è inevitabilmente mediato da gabbie di riferimento morale che la società ci propone. Tra azioni che vengono compiute e il racconto che se ne fa, la distonia è macroscopica per la portata di ‘verità', una visione deviata del mondo alla quale aderiamo e che riesce comunque a posizionare i due livelli (il racconto e l'azione, il vivere e la creazione artistica, il dentro e il fuori la Storia) in un ‘accettabile' frullatore di senso, che ci rimanda alle incertezze dell'oggi, a una resiliente condizione concettuale assorbita come cittadini e come spettatori. Nel primo noi abbiamo di fronte un altrettanto copioso numero di ‘spettatori' posizionati in palcoscenico, convengono all'appuntamento per ascoltare una conferenza di Angelica Liddell e li osserviamo ascoltando un testo detto fuori scena, ogni volta riadattato da inserzioni anche private e che in questa occasione prefigura un futuro prossimo di conflitti dichiaratamente di matrice economica (tradotto dal catalano e proiettato sullo schermo), mentre veniamo guardati. Un rispecchiamento de-teatralizzante. Nel secondo, mentre l'insegnate di Tai Chi coordina una sorta di partitura di gesti che prende il segno di in una coreografia di intenzioni quotidiane contrappuntate dalla ritualità della disciplina cinese, è il racconto di una distanza amorosa a tenere alta la tensione, una tensione che si espande definitivamente quando nel terzo momento tutto il gruppo dei non-attori (che la compagnia catalana opziona nei contesti dove lo spettacolo va a depositarsi ) si lascia trascinare nell'ossessivo ritmo di una musica techno che quasi invita anche noi a parteciparvi (e non ci sarebbe niente di male nel farlo). Il rave party sfuma, si chiude lo spazio di relazione fra il noi e loro, lo ‘spettacolo' termina lasciando sospese le questioni poste, private o collettive in cui lo sbilanciamento fra responsabilità soggettiva e vuoto di percezione dell'abisso incombente è assolto nella scrittura di Guerrilla , motivata da una costante tensione poetica che rende compatto ed emozionate questo lavoro scenico.
D'altronde la sfera del reale incide e segna il passo di molti lavori per la scena in questo strascico del secondo decennio. Se complessivamente l'operazione orchestrata da Fabrizio Arcuri per Ritratto di una Nazione ha l'architettura drammaturgica di un Ronconi (Luca) ancora austero, meno barocco cioè, la visione che ne scaturisce allora è dichiaratamente oltre l'allegoria delle macchine e dei piani scenografici che diventato scrittura; tant'è che l'immagine guida del Ritratto è una rilettura di quel Quarto stato di Pelizza da Volpedo dato in pasto al cinese Liu Xiaodong con il realismo somatico di Things aren't as bada s they could be , ovvero una magnifica ‘fotografia' degli ultimi nell'accezione di un capitalismo post-umano data da Slavoj Žižek e che non immaginavamo esistesse oltre le nostre di povertà. Uno stralcio di giornale riportava da Bolzano che il sindaco vieta il cricket nei parchi cittadini dopo che un bimbo è stato colpito al volto. Il risultato: molti appassionati di quello sport nel Nord-Est, ma zero impianti. Nuove povertà, nuovi spazi di esistenza, nuovi diritti. Il lavoro di Arcuri tesse una trama di mancati appuntamenti con una « pluralità che persiste come tale sulla scena pubblica» (4). Una sponda della scrittura tornata d'impegno grazie ad autori più disparati, ma in questo caso ci interessa la macchineria e non il tessuto di scritture, il mezzo più del soggetto, perché è lì il vero corpus reale dei significati.
Stiamo parlando di uno spazio relazionale, un contest che definisce l'ambiente entro cui si inscrive una pratica d'arte e la speciale qualità di contratto fra spettatore e opera. Per i Rimini Protokoll potrebbe significare l'abitare un medesimo disagio ( Nachlass – Piéces sans personnes ), per la Scietat Doctor Alonso è l'investigare delle potenzialità dello spettatore di intervenire direttamente nell'opera (suonare una delle tante chitarre elettriche a disposizione), durante il suo farsi (e disfarsi), come Anarchy sembra indicare, mentre pone l'accento sulle sopravvivenze del pianeta. Uno spazio anche mediato e dove si fa concreta la misura dell'intervento dello spettatore. In questo senso, il Cinéma Imaginaire che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini ‘eseguono' per la regista olandese Lotte van den Berg, e in continuità col precedente Agoraphobia e quella trasfigurazione alla Sophie Calle, è indicativo non soltanto per la modalità (ogni spettatore può ritagliarsi un suo spazio creativo nell'immaginarne uno sociale e urbano), ma anche per il tempo che una performance site-specific richiede. L'osservazione è il metro con il quale si misura lo spessore evocativo di un'azione artistica, osservazione e immersione nel tentativo di catturare l'incompiuto, la domanda rimasta sospesa, l'uno all'altro e l'uno nell'altro tra chi guarda e chi è guardato come i protagonisti di Guerrilla , siamo noi e loro nell'atto mancante dell'azione, fra spettatore e spettatore, fra spazio e tempo. Quel tempo, che Alessandro Sciarroni propone di adottare come detonatore di un processo di trasformazione, del sé e dell'altro, in una immota (benché dinamica) durata dell'esperienza scenica. Con Don't be frigthened of turning the page siamo intorno allo spazio scenico preposto dove il danzatore-performer muove una rotazione ossessiva e ipnotica alla maniera dei dervishi ruotanti, senza sosta, lancinante e eterea, raggrumata di sudore e respiro sospeso che emana una estatica verticalità in quel girare a un verso, sempre lo stesso, come una pagina algebrica ben calibrata e bellissima. Ciò che l'autore stesso chiama un viaggio psicofisico è, di fatto, un viaggio dello sguardo di entrambi i fronti. Il suo, che necessariamente deve poter tornare sulle pieghe di un'esistenza condivisa (dunque non una prova in solitaria); il nostro, in quella spazialità degli orizzonti, superamento dei confini, dismisura nella misura della ‘composizione' artistica alla quale si alludeva poco sopra.
1)Donatella Di Cesare, Critica del secolo impaziente. Sloterdijk boccia il Novecento , in “La Lettura / corriere della sera”, Anno 7 – n. 39, domenica 1 ottobre 2017, pp. 46, 47.
2)Eric J. Hobsbawm, Introduzione: Come si inventa una tradizione , in L'invenzione della tradizione , a cura di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, Einaudi, Torino 2002, p. 5.
3)Vincenzo Trione, L'impegno è cool. Banksy disegna tweet , in “La Lettura / corriere della sera”, Anno 7 n. 40, domenica 8 ottobre 2017, p. 35.
4)Paolo Virno, Grammatica della moltitudine , Derive Approdi, Roma 2002, p. 10
Guerrilla
ideazione El Conde de Torrefiel
regia e drammaturgia Tanya Beyeler, Pablo Gisbert
testo Pablo Gisbert
in collaborazione con 80 volontari di Roma
assistente Nicolas Chevallier
disegno luci Dani Miracle
scenografia Blanca Añón
suono Adolfo García
stage manager Isaac Torres
assistenza alla coreografia Amaranta Velarde
musica Pink Elephant on Parade, Salacot
performer Amaranta Velarde e gli 80 volontari di Roma
foto Claudia Pajewski
Short Theatre, Teatro India, Roma, 7-8 settembre 2017 |