Marcel Duchamp
La rilettura di un libro
di Alfio Petrini
“Quando Eugenio Miccini, uno dei ‘padri' della poesia visiva, mi sollecitò a scrivere il primo libro sul Teatro Totale , dirigeva assieme ad Alberto Cappi, per il Comune di Mantova, la collana Archivio della poesia del ‘900 . In occasione del convegno sulle creazioni artistiche in area intermediale e sinestetica, organizzato nel 2001 dal Centro Nazionale di Drammaturgia, mi diede in dono “Gioco tra parole e immagini in Marcel Duchamp” a cura di Gigliola Fazzini, che figurava nella collana della Editoriale Sometti. Ho ripreso il libro tra le mani in questi giorni e l'ho riletto con grande piacere e divertimento apprezzando appieno il valore dissacratorio del ‘gioco' proposto da Duchamp con riferimento agli strumenti linguistici. “Un gioco - scrive Miccini nella prefazione -, condotto con acume e nonostante la sua ironica e logica bonarietà, severamente ambiguo, anzi enigmatico. Nessun altro pensatore - aggiunge - ha rivelato come lui le equivocità e le incoerenze di ciò che gli uomini usano per esprimersi e comunicare, cioè il linguaggio. E lo fa da artista, da giocoliere, usando, come nei suoi ‘ready-made', parole e oggetti, locuzioni, proverbi ed usanze, insomma tutto quanto si ‘trova' depositato nella lingua”.
Il lavoro della Fazzini, difficile e non esaustivo, risulta decisamente utile per chi si occupa di processi della comunicazione e produce un senso destinato a durare nel tempo. Mette in evidenza il valore del punto di vista di Duchamp sulle “incongruità dell'arte”: ne sovverte “gli stereotipi e fa riflettere sui limiti posti dalla nostra percezione corporea e sulla parzialità della lingua e del pensiero umano rispetto alla complessità del mondo”.
La protagonista assoluta del modo di procedere di Duchamp è l' intelligenza, una specificità fondamentale che va attribuita all'arte. L'artista prende così le distanze “dall'arte plastica in senso stretto” e apre a tutti i movimenti di avanguardia che sono venuti dopo: arte cinetica e optical, nouveau realisme, pop art, happening, arte concettuale, arte povera, fino a Fluxus e alla poesia visiva.
Duchamp non afferma e non riafferma nel solco della storia la inseparabilità del contenuto dalla forma, ma tende a distaccarsi dal passato attraverso una “carica nihilista, tipica del dadaismo”. L'analisi semiotica del suo lavoro tende a evidenziare gli stereotipi del suo tempo, “mostrando il progressivo mutare del pensiero umano nei confronti della realtà”. L'obiettivo è, dunque, un'arte che sia “espressione intellettuale”, che nel suo distacco dal passato spazi in diversi campi possibili, riguardanti non solo la pittura, ma anche il fumetto satirico, i giochi di parole scritti e quelli messi in movimento su dischi ruotanti, il cinema e le boites, assieme ai ready-made e alle installazioni. Non c'è una sola opera a sé stante. Tutte le opere riassumono la organicità del suo lavoro: fanno eco, l'una verso l'altra: “si riflettono e si proiettano l'una sull'altra per alludere a qualcos'altro secondo un procedimento di inscatolamento apparentemente senza fine”.
Nel primo capitolo la Fazzini studia i giochi di parole, individuando “i meccanismi generatori di corto circuito tra i vari percorsi di senso e principalmente quello dell'omofonia. I giochi di parole, come tutti gli altri giochi, hanno come scopo il divertimento, il sorriso; ma l'analisi delle regole implicite, la ricerca degli ostacoli e della libertà insita nel ‘jeu' rende manifesta la malleabilità della lingua e la sua capacità di mimare gli intricati percorsi del pensiero umano e le sue barriere”.
La Fazzini dice che il gioco di parole è costituito dal minimo di 1) ”una espressione che connette più campi semantici tramite 2) un elemento omonimico (connettore/disgiuntore) che permette un doppio livello di significazione. 3) L'ambiguità dell'elemento polisemico genera un corto circuito che risulta imbarazzante per chi non lo sa interpretare, e arguto per chi è capace di ricostruirne il meccanismo” che serve ad evidenziare l'importanza dello stimolo e della creatività del destinatario. E dopo l'asserzione puntale delle regole del gioco l'autrice passa in rassegna le metaboli che si dividono nei metaplasmi con i quali Duchamp ha fatto “divergere la sostanza grafica da quella sonora, alterando i confini delle parole, aggiungendo sillabe, storpiando paronimicamente le parole, sopprimendo grafemi, sostituendo affissi, permutando elementi”). E aggiunge che a livello sintattico “ha agito sulla struttura della frase mediante metatass i: parentesi, concatenazioni, costruzioni metriche, simmetrie, crasi, ellissi, soppressione della linearità, sillessi, chiasmo”. A livello semantico ha modificato il contenuto di una espressione mediante metasememi: metafore, sinestesie”. E per mezzo dei metalogism i (nonsense, paradossi, domande retoriche, inversioni logiche) ha contraddetto il sapere comune e ha mostrato come le percezioni fisiche possano negare “la logica della lingua che non è uno specchio passivo della realtà, ma al contrario una struttura che proietta le sue segmentazioni”.
Maurizio Calvesi chiamò Duchamp “il filosofo triste”: per il pensiero negativo di cui era portatore e per la feroce opera di dissacrazione del concetto di creatività dell'arte. E Duchamp chiamò Duchamp Rrose Sélavy per far capire, con la firma apposta sotto i primi giochi di parole, che non bisognasse prendere in considerazione il testo in sé, ma tutti i testi a cui faceva riferimento il gioco che, nel caso specifico della firma, sono dati da un modo di dire, dal titolo di una canzone, da un proverbio: espressioni comuni che nel ‘gioco' costituiscono la intertestualità della comunicazione.
Nel secondo capitolo del libro la Fazzini affronta i ready-made: “quegli oggetti che diventano arte unicamente perché l'artista li sceglie, li intitola e li firma. E' proprio la soggettività violenta di questo atto ad assegnare valore d' intellettualità all'arte, “implicando una reazione di ‘indifferenza' visiva, una totale assenza di buono o di cattivo gusto”. I titoli che l'artista assegna agli oggetti messi in mostra richiamano, ovviamente, “l'attenzione verso campi verbali”.
Se i teady-made sono giochi di parole, i giochi di parole sono anch'essi dei ready-made, scrive Maurizio Calvesi nel mese di aprile del 1993 su Art Dossier : “sono delle presenze oggettive ‘trovate'; al di là dell'apparenza banale, hanno un senso che va ricavato e che, pur restando latente, ha la forza di conferire all'oggetto come alla frase quell'aura che lo nobilita”.
Dopo aver analizzato una serie di ready-made - anche tra i più famosi, come Roue de bicyclette, Pharmacie, Egouttoir, Fountain, Trébuchet, L.H.O.O.Q -, la Fazzini ci ricorda come Duchamp abbia riportato alcuni suoi giochi di parole su dischi ruotanti nel tentativo di dare espansione ai grafemi, di liberarli dal condizionamento dei margini. Ma - aggiunge - che non sta nel nonsense il punto di arrivo di Duchamp. L'obiettivo strategico risiede nella volontà di superare i limiti “che il mondo esterno impone al pensiero e alla percezione umana”, per dirla con le parole della nostra autrice. E per quanto riguarda la percezione fisica mi sembra di poter affermare che lo sguardo di Duchamp cerchi allo stesso tempo il superamento della brutalità dei cinque sensi.
In grande sintesi ciò che sta alla base del lavoro di Duchamp è, dunque, la negazione del concetto di arte: “il prodotto creativo di un singolo viene sostituito da prodotti industriali fatti in serie e di valore basso”. E a questa negazione si aggiunge il senso attribuito al ruolo dell'artista che consiste nella scelta di un oggetto già esistente e nel dargli un nome, escludendo il ricorso alla manualità e contando decisamente - come si è detto - sull'apporto dell' intelligenza . “L'artista - conclude la Fazzini -, soggetto di dignità estetica, perde la sua sacralità”.
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