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Rosa e la Calabria Saudita

di Alfio Petrini

Rosa è la vedova di Rocco, giornalista a mille euro al mese, ucciso dalla ‘ drangheta . Il figlio (Giacomo, come Giacomo Matteotti) non ha seguito la strada del padre, quella della denuncia e dello scontro frontale con il gruppo mafioso. Si è vendicato uccidendo gli assassini del padre. Ora, madre e figlio, sono costretti a vivere in luoghi segreti, lontani l'uno dall'altra, per non rischiare la vita. La famiglia di Rosa è praticamente distrutta. Alla donna non rimane che rimembrare i giorni felici e i giorni tristi passati accanto a Rocco, la sua “testardaggine” ma anche suo gran cuore, e a ricordare i sacrifici fatti per crescere il figlio Giacomino. Le sue giornate sono scandite dal lavoro in una scuola come addetta alle pulizie, dalla lettura di una lettera del figlio che ormai ha imparato a memoria, e dalla speranza di poterlo un giorno rivedere.

Anche questa volta Enrico Bernard non ha deluso le aspettative. Il testo è sostenuto da una scrittura limpida, essenziale, che va dritta alle cose senza sbavature e indugi pleonastici. Il racconto del vivere quotidiano di Rosa non concede nulla alla facile descrizione dei fatti e dei sentimenti che hanno attraversato la sua disgraziata famiglia. Un bell'esempio di drammaturgia contemporanea, a impianto realistico, che non ha niente da invidiare alla scrittura di genere praticata in altri Paesi europei.

Si capisce che Melania Fiore è entusiasta della parte che le ha messo a disposizione il drammaturgo. Rosa è un personaggio coinvolgente: l'attrice ci mette molto di suo, e poteva ancora di più personalizzare la trasformazione della parola scritta in parola parlata, arricchendo ulteriormente il rapporto tra testo e scena. La teoria (astratta) secondo la quale l'attore debba “calarsi nel personaggio” non giova né all'attore né all'autore del testo. Il personaggio è un lessema, quindi non c'è nel testo. Non va trattato come fosse un organismo vivo. Ciò che conta è allora il rapporto con il retroterra autobiografico dell'attore, le sue esperienze di vita, il suo punto di vista sulle cose del mondo. E conta una consapevolezza fondamentale: i sentimenti non sono altro che l'insieme delle azioni fisiche che li costituiscono.

Buona la prova dell'attrice, legata ad un personaggio non facile. La performance ha offerto un livello di accettabile credibilità, anche se l'assunzione del doppio ruolo attrice/regista non è stato foriero dei migliori risultati possibili. Da cosa l'ho capito? Dal fatto che l'attrice andava spesso fuori misura. Il doppio ruolo ha abbassato il livello di controllo della recitazione. Non le ha consentito di mettersi in rapporto con il luogo in cui è stato progettato e realizzato lo spettacolo. Le dimensioni della sala teatrale, che in pochi metri mette insieme attori e spettatori, imponevano un linguaggio logico-discorsivo (richiesto dal testo di Bernard) che avesse una sonorità minima, direi di natura cinematografica. Invece, l'eccesso di energia (elemento cardine del processo di comunicazione) ha spesso comportato una dismisura della sonorità della parola, tale da determinare un effetto leggermente retorico che ha inciso sulla credibilità del suono stesso e conseguentemente del personaggio. Insomma, l'attrice avrebbe dovuto parlare di più e recitare di meno.

Le Stanze Segrete hanno un segreto. Le Compagnie devono tenerne conto, se vogliono ottenere la migliore collaborazione tra testo e scena. “Non recitare, parla”, bisbiglia il teatrino all'avventore. Gli attori devono saperlo ascoltare.

 

con Melania Fiore

di Enrico Bernard

Regia di Melania Fiore

Teatro Stanze Segrete, Roma Maggio 2013