Salomon Michoels e Veniamin Zuskin
Vite parallele nell'arte e nella morte
di Alfio Petrini
Molto pregnante, molto bene strutturato, e molto utile è il libro di Antonio Attisani “ Solomon Mchoels e Veniamin Zuskin – Vite parallele nell'arte e nella morte”, pubblicato dalla aAccademia University Press (Torino 2014, 18,00 euro).
Michoels e Zuskin erano i “gemelli elettivi” del Teatro Ebraico di Stato nella Russia post-rivoluzionaria. Il contesto nel quale si collocano i loro punti di vista sull'arte dell'attore è dato del fallimento dei valori fondanti della rivoluzione d'ottobre che aveva suscitato forti aspettative anche nel campo dell'arte e della cultura. Tante speranze, ma anche tante delusioni, frustrazioni, e sconfitte, che nel giro di pochi anni lasciarono sul campo una caterva di morti, anche tra gli intellettuali e gli artisti che avevano salutato con gioia il nuovo regime e avevamo creduto in una profonda rigenerazione sociale e politica della Russia, escludendo dalla prospettiva artistica e culturale “l'arrogante presunzione stalinista di dividere il mondo in buoni e cattivi, rossi e bianchi, noi e loro”.
Solomon Michoels fu messo alla testa del Teatro Ebraico di Mosca dopo l'autoesilio di Aleksej Granovskij (1928). Agli iniziali riconoscimenti seguirono perplessità, poi critiche, infine un'accusa infamante: gli spettacoli non avevano tracce di cultura sovietica. Michoels cadde in disgrazia e fu fatto sparire. Non si seppe mai la fine che fece. Alla sua morte Veniamin Zuskin fu costretto ad assumere la direzione di un teatro che si trovava senza contributi statali e con il calo pauroso degli abbonamenti. Gli spettatori bituali del Teatro Ebraico ebbero il timore di essere accusati di sionismo e disertarono in massa la sala.
Quale era l'idea di teatro di Michoels? E quali erano i tratti salienti della sua concezione dell'arte dell'attore?
<Si può insegnare ad un orso a danzare - diceva Michoels - ma non si può insegnare a un attore a recitare>, il che vuol dire – come afferma l”autore del libro -, “che è in grado di recitare colui che è già un attore, mentre non c'è tecnica (insegnamento) che possa trasformare chiunque in un attore. Sulla base di questa consapevolezza Jerzy Grotowski era portato ad affermare che il comportamento precedeva la tecnica”.
<< I fulmini del cielo m'interessavano sempre moltissimo>> - diceva Michoels. <<Mi sembrava che il fulmine fosse una fessura attraverso la quale potevo forse vederlo, Lui, Dio, seduto là in fondo mentre si lasciava scoprire per un istante. Ecco perché cercavo di non perdere mai l'istante del fulmine per gettare uno sguardo>>. In altre parole l'immaginazione è lo strumento principale che l'attore ha a disposizione. <<L'erranza dell'uomo sulla terra ha inizio nel momento della nascita, quando all'uomo accade di dimenticare tutto: da quel momento comincia l'erranza dell'uomo sulla terra, alla ricerca di ciò che prima sapeva. Il tentativo dell'uomo di comprendere il modo dura pertanto tutta la vita>>. Dunque, la vocazione è importante. Va scoperta e riconosciuta, ma subito dopo va opportunamente valorizzata. E Attisani aggiunge che << l'attore-essere umano>> di Michoels “non è una figura astratta o ideale, è colui che fa in base a coordinate che sono via via definite con estremo rigore e riguardano sia l'individuo che il cittadino, sia la conoscenza di sé che la propria azione (politica) nel mondo”. Il fare implica la ricerca di un modo per arricchire lo spettatore, per dargli qualcosa di nuovo rispetto a quella che è la sua concezione del mondo. La vocazione e il mestiere dell'attore consistono dunque in un atto complesso di disvelamento.
<< Il dirittto di andare in scena>> nasce da una presa di distanza dalla cosiddetta << realtà>>, e lungo la direttrice di un cammino singolare. <<L'arte non è il riflesso della realtà, è lo svelamento della realtà e al tempo stesso la liberazione dell'energia immaginativa nascosta nella realtà...In ogni attore ci sono un ideale specifico, un mondo immaginario, una serie di temi con i quali vive e una figura ( obraz ) che fa propria. Il regista deve prestare attenzione a questo universo, non deve vessare l'attore e deve costruire la propria arte in risonanza con lui>>.
“Ecco presentarsi - come puntualizza Attisani - la questione del rapporto dell'attore con il regista, tuttora irrisolta, nella maggior parte dei casi. O risolta con insensati compromessi che vengono spacciai per buon senso storico”. All'affermazione di Michoels secondo la quale <<il regista prende su di sé la gobba del pensiero, lasciando risplendere l'attore in tutta la sua bella nudità>>, l'autore del libro aggiunge che “il lavoro dell'attore, dopo essere stato intrapreso come una scelta di prassi filosofica, dovrebbe sostanziarsi in una progettualità realizzata in quella che Michoels chiama lingua della scena. <<L 'attore deve possedere un progetto artistico per esprimere un'idea o un'opera. Questo progetto appare quando l'idea crea un'eco nel mondo interiore dell'artista, che ha afferrato quella idea, che l'ha fatta diventare la propria carne e il proprio sangue…. Ma in scena noi non pensiamo, ma agiamo (sottolineatura di Attisani). Questa idea s'incarna dunque in immagini artistiche. Queste immagini costituiscono la lingua della scena che permette di esprimere l'idea e di condividere con lo spettatore la nostra concezione del mondo….La conoscenza è la sua vocazione (dell'attore) e la figurazione poetica è il suo elemento naturale…..L'attore non deve in alcun caso interpretare il personaggio. Se l'attore interpreta il personaggio recita il risultato fin dal primo momento ….E' possibile soltanto rappresentare e recitare un comportamento. E' dal comportamento che si conosce il personaggio ( charakter ). L'aspetto fondamentale di un attore è il comportamento >>. Contrariamente a quanto si dice comunemente l'attore non si cala nel personaggio. Il personaggio è un lessema. L'attore utilizza il personaggio-lessema per lanciare un messaggio, ovvero per comunicare allo spettatore - in cooperazione con il regista -, il proprio punto di vista sul testo.
Nell'appassionata e puntuale disamina del pensiero di Michoels, Attisani rileva che “se da un punto di vista filosofico quello di Michoels è un teatro nella stessa misura gnosico e patico, dal punto di vista storico è un teatro di testi e di personaggi”, precisando che “per lui e per i suoi compagni il rispetto degli autori e la composizione delle figure sceniche non è qualcosa di fine a se stesso: il lavoro sui testi è radicale e porta sempre a risultati diversi dal punto di partenza”. Non consiste in un processo di <<attualizzazione >>… , <<ma nel trovare in un luogo imprevisto la chiave del testo>>.
Affermazioni come <tutto l'essere umano canta>>, oppure come << io sono più poeta che attore>>, inducono ad una riflessione che vale per ieri e per oggi: <<tutte le scuole conosciute di teatro hanno una estrema attenzione alla respirazione, alla voce, al contatto, alla percezione del partner: hanno insegnato tutto salvo la comprensione e la poetica della drammaturgia>>. Il fatto è di rilevante interesse, perché l'attore è il poeta della scena, perché la drammaturgia dell'autore del testo è poesia, perché anche la drammaturgia dell'attore-autore è poesia: entrambe nascono dal comportamento poetico dell'artista che racconta una determinata storia.
Molto belle sono anche le pagine del libro dedicate ad altri due protagonisti di quella che possiamo chiamare ascesa e discesa precipitosa del teatro ebraico di Mosca: Granovskij e Chagall, i quali hanno di certo contribuito a sviluppare una ricerca significativa e coraggiosa sul versante del grottesco, lontano dagli schemi dell'ebraismo conservatore, etico e religioso, nella prospettiva di un ebraismo diverso, capace di aggregare un nuovo pubblico. ”Il primo è l'anello di congiunzione tra il futuro teatro ebraico sovietico e le avanguardie del tempo, mentre il secondo è il portavoce di una concezione figurale dell'ebraismo che diventerà il tratto distintivo del teatro. La storia del loro incontro - aggiunge Attisani – è di solito letta in termini di contrasto e di separazione, mentre la verità è un'altra perché la collisione e poi la sintesi tra le rispettive visioni costituisce un elemento fondamentale, anche se non unico, della poetica sviluppata dal Teatro Ebraico moscovita, distinguendola nettamente da quella di tutte le altre formazioni”.
L'idea di teatro di Zuskin non era sostanzialmente dissimile da quella di Michoels, con il quale aveva lavorato sempre molto volentieri . Lo considerava un grande attore e diceva che da lui aveva sempre qualcosa di nuovo da imparare. Zuskin teneva in grande considerazione il corpo (del resto il teatro è corpo, e anche la parola è corpo), imparava i movimenti solo alla fine e, lavorava sul personaggio anche dopo la prima rappresentazione. Non aspirava <all'efficacia esteriore del gesto>>, ma considerava il testo <<un senso implicito in azione>>.
“Sì, dunque - commenta Attisani - il teatro di attori come Michoels e Zuskin nasceva in un orizzonte di testi, però sempre affrontati con la consapevolezza che comprenderli a fondo e riproporli al pubblico contemporaneo comportava una responsabilità creativa equivalente alla scrittura, o meglio, una <<composizione scenica>> che sempre comporta una scrittura drammaturgica. E' questo un dato identitario della cultura teatrale russa del tempo, tale da non essere mai enfatizzato dai Nostri, e che di conseguenza rischia di sfuggire al lettore di oggi”.
L 'arte dell'attore di cui parla Zuskin non è tanto <arte dell'osservazione> di brechtiana memoria, ma “un attento riscontro delle azioni compiute dai vari personaggi e della interrelazione tra loro”. Ne consegue l'attenzione forte nei confronti dello spettacolo piuttosto che del ruolo, e del testo (<ora non penso al testo..non ritengo necessario imparare esattamente il testo fino alla fine>>). Importanti sono anche il discorso sulla luce - che non serve evidentemente a illuminare le forme, ma anche a creare forme di luce - (<<dalla luce dipende molto>>) e le annotazioni sullo spazio fisico (posso lavorare sull'intonazione delle mie battute soltanto quando conosco lo spazio fisico ; l'intonazione nasce insieme al movimento; l'attore deve sapere in ogni istante perché compie una certa azione; per questo finché non padroneggio tutto il mio patrimonio non posso soffermarmi su una certa intonazione>>). E per quando riguarda l'attività formativa Zuskin dichiara di amare molto il lavoro pedagogico, ma allo stesso tempo di temerlo. Lo teme perché è un lavoro arduo. E lo ama perché <<gli dà molto>>. Attisani commenta questo passaggio dicendo che “insegnare è il modo per non smettere di studiare “.
“Dopo essere stato torturato e aver confessato colpe inverosimili, sue e di altri, Veniamin Zuskin tentò ripetutamente di raccontare ai giudici la propria vita e di spiegare da quali principi etici fosse mosso, nonostante sapesse che comunque sarebbe stato condannato a morte”. Forse aveva bisogno di lasciare una testimonianza, come aveva cercato di fare con i suo curriculum? “Sia come sia , le sue considerazioni hanno la tonalità evidente della sincerità: l'ultimo Zuskin è davvero l'attore che parla attraverso le fiamme del rogo che lo sta uccidendo, come avviene metaforicamente nel famoso testo di Antonin Artaud. E ci consegna un documento d'inestimabile valore, unico nella storia della letteratura teatrale. Il valore di queste pagine è costituito anche da un senso di mistero. Perché Zuskin, ormai dentro e oltre la disperazione, sentiva il bisogno di parlare dei recessi più intimi del mestiere d'attore e di come il senso di una vita e di una ricerca si possano concretizzare in un artigianato? Sono pagine che non nascondono i dubbi, la sofferenza e le contraddizioni che caratterizzano la professione, ma che ricordano anche il senso di pienezza per le scoperte e le trasformazioni che di tanto in tanto costellano i processi, dimostrando come il teatro sia, a certe condizioni, una prassi della filosofia.. Il mistero comunque resta. Anzi, potremmo dire che la percezione di questo mistero vivo sia la sensazione più luminosa che trasmettono quelle pagine, che da profondamente autobiografiche diventano universali. Nel quadro dell'ultima meditazione il lavoro dell'attore non è qualcosa che porta alla costruzione di un ego sempre più forte, l'osservazione e l 'imitazione del mondo, degli altri, orienta semmai verso una differente logica identitaria; non un singolo “io” ma una moltitudine di relazioni. Sembra che così facendo Zuskin si sia chiesto e abbia compreso che quel tribunale stava eseguendo la condanna a morte di una intera cultura, di un popolo, di un mondo, il suo, ma anche di una umanità che comprendeva gli stessi giudici”.
Le vite parallele dei due “gemelli elettivi” (due in uno e uno in due) sono finite in tragedia, ma al di là delle speranze naufragate resta il senso poetico di un magistero straordinario che dura nel tempo, che c'induce a riflettere su cose importanti: soprattutto a cogliere quella “sincerità” che, anche se non ci suggerisce la verità, ci aiuta , con il suffragio dell'autore del libro, a riconoscere il valore della “autenticità” di cui ha bisogno la difficile arte del teatro.
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