Alexandre Salzmann, un protagonista dell'ombra
di Franco Ruffini
Il libro di Carla Di Donato L'invisibile reso visibile, Alexandre Salzmann (1834-1934) , è un libro fondamentale. Prima di cercare equivalenti genericamente elogiativi, qui “fondamentale” è inteso alla lettera. Come ciò che ha le caratteristiche delle fondamenta: essere solide, ed essere piantate su un terreno appropriato a sostenerle. Le fondamenta di una casa possono non essere un luogo gradevole da prenderci un caffè con gli amici, meglio il salotto buono. Ma senza fondamenta solide e ben piantate si rischia che nel caffè si mischino calcinacci anziché granelli di zucchero.
Fuor di metafora: il libro della Di Donato è solido.
Alexandre Salzmann appartiene a uno sparuto gruppo di personaggi del Novecento, il cui protagonismo appare gregario d'altri personaggi. Come Sulerzickij rispetto a Stanislavskij, o Flaszen rispetto a Grotowski: e come Salzmann, infine, rispetto a Gurdjieff. Ma le cose non sono così semplici come il rapporto gregario/protagonista farebbe supporre. Salzmann – come, ognuno a suo modo, i compagni di gregariato sopra ricordati – fu un “protagonista dell'ombra”. Disinteressato alla ribalta del primo piano, più che incapace di accedervi. Nel campo di sua specifica competenza – le luci o, meglio, la luce in teatro – Salzmann fu un protagonista di primo piano. Universalmente riconosciuto, nonostante che la sua produzione più importante si fosse realizzata nell'Istituto di Hellerau, dove le figure eminenti erano Adolphe Appia ed Emile Jaques-Dalcroze. Poi, ad un certo punto, l'interesse per la luce lasciò il posto, o s'intrecciò ad un altro interesse: quello per lo “sviluppo armonico dell'uomo” - come s'intitolava l'Istituto parigino di Gurdjieff - attraverso il movimento. Nella collaborazione con Gurdjieff, la vocazione di Salzmann trovò la sua autentica, congeniale dimensione. La dimensione dell'ombra, appunto.
Pittore inventivo e instancabile, di Salzmann si diceva che ciò che gl'interessava era dipingere, non i dipinti. I dipinti sono il cerchio di luce del dipingere, quello che ne va in ribalta: il dipingere è la zona d'ombra di quel cerchio di luce. Ma quale delle due cose è l'essenziale? Anche di Artaud, Rivière ebbe a dire che era un grande poeta che non scriveva grandi poesie. Un po' all'ingrosso, ma in modo sostanzialmente corretto, si può dire che il processo è la zona d'ombra di qual cerchio di luce che è il prodotto . Nel feticismo da prodotto che contraddistingue i nostri anni, riesce quasi impossibile capire che il secolo scorso, soprattutto nel teatro, pose l'accento proprio sul processo, a volte addirittura a discapito del prodotto che ne risulta.
Dei protagonisti dell'ombra è difficile ricostruire un quadro solido, “fondamentale”. Al contrario della luce, l'ombra non fa vedere. Carla Di Donato è riuscita nell'impresa di vedere tutto quello che è umanamente possibile vedere di Alexandre Salzmann. Ne emerge una figura a tutto tondo, dall'infanzia alla morte prematura, a sessant'anni: una vera e propria biografia il cui racconto, in sede di recensione, dev'essere rinviato al voluminoso libro che lo contiene.
Il terreno appropriato sul quale poggia questa “solida” biografia è quello del corpo: grande protagonista, troppo spesso misconosciuto e mistificato, del Novecento. Non è un caso. Il corpo reale sta al corpo di facciata, si potrebbe dire, come il dipingere sta al dipinto. Il corpo reale è indivisibilmente composto di fisico, cuore e mente, il corpo di facciata è solo fisico. Il corpo fisico è quello che si dà in mostra, il corpo reale è quello che si dà al processo. Al processo di vivere: che non è il semplice “esistere in vita” del certificato all'anagrafe. Il lavoro di Gurdjieff riguardava il corpo reale: più che naturale che Salzmann vi trovasse il luogo della sua autentica vocazione. Ma Gurdjieff aveva bisogno anche di vendere il proprio prodotto, e fu infinitamente abile nel riuscirci, anche contro le circostanze più avverse. Salzmann era disinteressato a vendere: dipinti, o qualsiasi altro genere di prodotto. Ne lasciò volentieri il compito a Gurdjieff e all'intraprendente consorte Jeanne. Lui restò nell'ombra.
Ma quell'ombra è il terreno “appropriato” della ricerca teatrale del Novecento. Stanislavskij lo chiamò “processo creativo”. Gli dedicò il suo libro più famoso, Il lavoro dell'attore su se stesso , che circola sotto la falsa luce di manuale di recitazione. Craig lo chiamò “via della semplificazione”, Artaud “costruzione del corpo senz'organi”. In trasparenza alla solida biografia di Salzmann, il libro della Di Donato lascia vedere – per sprazzi, citazioni pertinenti, accostamenti obliqui – il terreno appropriato su cui poggia. Ma per questo, tornando in metafora, non basta andare nelle fondamenta. Bisogna scavare più giù, andare più a fondo, in altri libri e persino nell'esperienza di se stessi, alla ricerca di quel misterium tremendum che è il corpo.
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