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Lo sguardo sull’arte dell’attore/danzatore.
Attraverso la scrittura, le azioni fisiche, il processo organico.
di Alfio Petrini

Seconda parte

Virgilio Sieni
Ariane Mnouchkine
Alfio Petrini

 

 

1. Le riflessioni che sono al centro di questo scritto riguardano sia l’attore che il danzatore. Eugenio Barba ha ragione quando nel Dizionario di antropologia teatrale afferma che “la rigida distinzione fra il teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischia continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo e il danzatore verso il virtuosismo. Questa distinzione apparirebbe assurda ad un artista orientale, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei di altre epoche storiche : a un giullare o a un comico del Cinquecento”. I passaggi dal discorso sul teatro a quello sulla danza non devono dunque suscitare perplessità o stupore. “I principi di vita – aggiunge Barba - di cui andiamo in cerca non tengono in alcun conto le nostre distinzioni fra ciò che definiamo teatro o mimo o danza. Uno dei principi attraverso cui il corpo dell’attore e del danzatore rivela la sua vita allo spettatore, dunque, in una tensione di forze contrapposte, è il principio dell’opposizione (la danza delle opposizioni si danza nel corpo prima che con il corpo). Attorno a questo principio che ovviamente appartiene anche all’esperienza dell’attore e del danzatore occidentale, le tradizioni codificate dell’Oriente hanno edificato diversi sistemi di composizione”.

2. Gettare uno sguardo sull’arte dell’attore/danzatore vuol dire prendere in considerazione anche alcuni aspetti fondamentali della scrittura drammaturgica, in quanto il drammaturgo scrive per l’attore/danzatore, non per il lettore/spettatore. L’attore/danzatore non può ignorare l’arte della scrittura drammaturgica, così come lo scrittore non può ignorare le questioni fondamentali che riguardano l’arte dell’attore/danzatore.

La posizione dello scrittore di teatro è cambiata nel corso del tempo. Non è più importante la posizione morale rispetto alla storia che racconta. Lo scrittore “offre i contenuti del proprio cervello sotto forma di una serie di possibilità alternative fantastiche”, scrive Rella (Ai confini del corpo), citando Ballard. E’ un osservatore, un esploratore, un artista che lavora con metodo scientifico, che agisce in un “territorio sconosciuto”, che utilizza fatti che non sono mai accaduti e che lavora sulle azioni fisiche applicandole alla scrittura drammaturgica e destinandole al corpo/mente dell’attore/danzatore per l’autogestione dei processi organici. Il drammaturgo che lavora sulle azioni fisiche fa, dunque, il mondo, non lo descrive. Il rapporto corpo/mente nell’ambito della produzione delle forme organiche è un tema che non può essere eluso, perché il drammaturgo non scrive pensando allo spettatore, ma all’attore/danzatore. E’ il regista che deve pensare allo spettatore, non lo scrittore di testi linguistici, il quale dovrà avere una accortezza fondamentale, quella di scrivere prima il testo fisico e poi il testo linguistico.

Il lavoro del drammaturgo ha a che fare con la chimica, non con l’alchimia. Consiste nella selezione e nella combinazione di segni non verbali e verbali nel presupposto della dilatazione (e trasformazione) del corpo/mente dell’attore/danzatore e nella prospettiva della produzione di una miscela linguistica eterogenea costituita da insiemi di forme organiche. Lo scrittore che pone il testo fisico alla base del testo linguistico predispone il terreno del fare scenico. Costruisce una ipotesi che potrà essere rispettata in tutto o in parte dall’attore/danzatore, ma che in ogni caso funziona da stimolo esterno. Dunque, di fronte a cose sconosciute, mai accadute prima, procede alla costruzione di una ipotesi. Concepisce azioni, inventa situazioni, progetta soluzioni irrisolvibili, favorisce l’irruzione del corpo/mente (dilatato) nel corpo della scrittura, affinché dentro di lui possa entrare il mondo di cui fa parte anche quello che non conosce: di cui fanno parte i morti e i vivi, le parole, le immagini e i suoni che lo hanno attraversato. Sono tutti lì con lui, sempre, nella stanza in cui lavora. Sta fermo, ma si muove. Sta seduto, ma vola, viaggia, si muove. Agisce nella consapevolezza che è solo, che ha solo il corpo/mente a disposizione, che il corpo/mente è una ricchezza da non dissipare o disperdere.

E cosa fa per costruire l’ipotesi? Getta lo sguardo nel suo corpo/mente scorticato nella speranza di poter sfiorare il pathos del mondo. E nel costruire l’ipotesi accetta il mistero della dilatazione del corpo e della mente degli uomini. Ma il segreto dove sta? Sta in ciò che si spinge oltre lo sguardo? Il corpo/mente è veramente suo? E dove finisce? Rella nel libro citato all’inizio scrive che il corpo non termina dove finisce l’occupazione dello spazio. Essendo lo spazio una estensione del corpo, il corpo comprende anche lo spazio in cui si trova. Ma, se lo spazio è una estensione viva del corpo, dove termina questa estensione, cioè lo spazio? Lo spazio non ha limiti, perché il corpo/mente non ha limiti. Le questioni relative al corpo - meglio sul corpo/mente che sta alla base della creazione artistica dell’attore/danzatore -, alle azioni fisiche e al processo organico, non possono essere disattese nella prospettiva della scrittura drammaturgica per il semplice fatto che il drammaturgo, come ho già detto, scrive per l’attore/danzatore.

3. Nel precedente scritto sull’arte dell’attore/danzatore, vista attraverso alcuni libri sulla formazione, ho ricordato che il corpo umano - a volte anche quello dell’attore/danzatore in formazione -, può essere vittima di patologie che impediscono il pieno possesso delle capacità espressive, quindi la comunicazione, e che rappresentano le resistenze di cui molte volte ha parlato Grotowski. Il corpo, da grande alleato, può diventare un acerrimo nemico, e non solo dell’attore/danzatore. “Benjamin - scrive Rella nel libro Ai confini del corpo - aveva paura del mito, della forza irrazionale che questo sembrava contenere. Per questo, quando si propone di spezzare il tempo omogeneo e lineare della storia dei vincitori egli riesce a pensare soltanto ad un arresto della dialettica, che anziché sporgersi verso il superamento della contraddizione in avanti, rimaneva sospesa nell’attimo in cui i contraddittori si mostravano con tutta la loro forza ed evidenza. Ma la paura nei confronti del mito che sta dietro ad alcune cautele benjaminiane, si estende anche alla sua rappresentazione simbolica. E dietro ancora c’è probabilmente l’orrore del sesso, del corpo. Benjamin dice che bisogna incedere con l’ascia affilata della ragione, senza volgersi né a destra né a sinistra, per rendere coltivabili i territori su cui cresce anche la follia, e questo senza lasciarsi attrarre ‘dalla selva primordiale’. La selva primordiale è l’umido di Nana, da cui Benjamin ha distolto gli occhi. Il più grande critico di questo secolo non ha potuto diventare il più grande pensatore di questo secolo per il suo orrore per il corpo”.

4. Al centro del corpo c’è il tronco, e al centro del tronco c’è il cuore. La teoria del tronco di Decroux è importante tanto quanto è disattesa dagli attori e dai danzatori. Implica particolari ovvi, ma molto importanti, che non possono essere dimenticati. L’impulso parte dal baricentro, posto alla base della spina dorsale, nella parte posteriore bassa del tronco dove si trovano le reni, mentre nella parte anteriore bassa si trova il ventre. Per il drammaturgo che lavora sulle azioni fisiche in funzione dell’attore/danzatore la centralità del tronco è più importante della centralità degli arti: sono più importanti le interiora delle interiorità. Il processo organico del drammaturgo e il processo organico dell’attore/danzatore presentano sostanziali differenze, ma per entrambi valgono quattro fattori fondamentali: lo stimolo esterno, l’impulso, la ricerca di un asse interiore, la dilatazione del corpo e della mente. Nell’ambito del discorso sulla scrittura di testi pornologici è valida la metafora testoriana del “ventre del teatro” (manifesto del 1968) di cui Giorgio Taffon riferisce in modo rigoroso e puntuale in un interessantissimo scritto sull’autore lombardo e la sua “inciviltà” : “se il teatro , anzi, i teatri sono come dei corpi, Testori punta al loro ventre, non alla testa, né al cuore, vale a dire, non alla elaborazione intellettuale e ideologica da una parte, non al sentimentalismo dall’altra. Punta a ciò che nel corpo teatro è il grembo, il viscere, le interiora, l’utero, dove inizia la vita del teatro stesso, un ‘prima’ che è un prima di ogni ordine esistenziale, culturale, sociale, ideologico, prima di ogni ipostasi dottrinaria astratta. Punta dritto anche all’irrazionale, al dionisiaco, all’istintuale, al fisiologico. Per esprimere quanto di insignificante, assurdo, demente, e/o quanto di divino, amoroso, liberatorio, ha il vivere umano” ( “Un teatro civile per un paese incivile, oppure un teatro incivile per un paese civile”, Liminateatri, 2011”), il che mi sembra confermato dalla messa in scena di molti suoi testi linguistici.

La questione della centralità del tronco, in alternativa alla centralità degli arti, ha cambiato il modo di fare teatro e di fare danza, ma è ancora ignorata dalla maggior parte dei coreografi, dei registi e degli attori/danzatori presenti nel mercato internazionale.

Irene Tassembedo, regista e coreografa, in Le sacré du tempo mette in scena cinque musicisti e sette danzatori ai quali affida il compito di raccontare la storia di uno sgabello di legno in un villaggio africano. Il furto dell’oggetto sacro sconvolge le menti e cambia la vita degli abitanti del villaggio, i quali perdono saggezza, equilibrio, identità e ritrovano lo stato di salute originario soltanto dopo aver ritrovato lo sgabello. Lo smarrimento della ragione è il tema centrale della favola che non trova però riscontro credibile nella scrittura scenica. Tra testo e scena non c’è collaborazione. Lo spettatore è conquistato dalle esplosioni barbariche dei musicisti - cuore pulsante dello spettacolo -, ed è respinto dalla fredda ripetizione dei movimenti eseguiti dai danzatori secondo il principio di centralità degli arti inferiori e superiori. In altri termini, Tassembedo, invece di chiedere ai danzatori di scrivere il testo fisico alla ricerca di una coscienza alterata e di un altrove, li guida a risolvere il problema della rappresentazione della perdita dell’equilibro lavorando con l’ascia affilata della ragione. Ignora le forme organiche e punta sugli stilemi coreografici. Mancando il passaggio dall’equilibrio alla follia, dall’ordine al disordine, e viceversa, manca la comunicazione seducente dell’impalpabile. Troppa danza e poco teatro. Molta astrazione e poca organicità. Molto atletismo e poca carica energetica. Molta agitazione e poca profondità espressiva. Nessuna credibilità delle forme nel passaggio cruciale dall’armonia al caos e dal caos all’armonia.

5. E se il corpo dell’attore/danzatore diventa lo spazio scenico?

Sono inseguito dalle immagini di Blue provisoire di Yann Marussich – attore/danzatore svizzero. Il suo spettacolo di teatro/danza vive ancora nella memoria a distanza di alcuni anni. Dire che mi ha sorpreso è poco. Mi ha affascinato. Mezzi minimi: massimi risultati. E quanta pazienza, quanta tenacia, quanto lavoro per conseguirli! Confermo quello che sostengo da molto tempo: bisogna tornare alle origini. Non voglio dire che tutti i danzatori debbano fare quello che ha fatto Marussich, ovviamente. Dico che possono danzare o non danzare, impiegare le metodologie o le tecniche più diverse, ma non possono permettersi di produrre forme che non siano credibili ed emotivamente coinvolgenti, tradendo le aspettative legittime dello spettatore accorto. Ma Marussicih è andato al di là della credibilità delle forme. Ha osato l’impossibile. E’ riuscito a far sì che il suo corpo divenisse lo spazio scenico dello spettacolo.

Il dono graditissimo della performance di Marussich è l’accelerazione del battito cardiaco. L’artista sceglie una forma extrème di creazione artistica, andando oltre la meta conseguita da Fiaderio che a Santarcangelo ho visto lavorare sulle tracce. Marussich danza senza danzare. Fa spettacolo, negando lo spettacolo. Sceglie l’esperienza performativa vera invece della rappresentazione, la scultura invece del teatro, l’immobilità assoluta invece del movimento. Punta sull’attività interiore, invisibile e possente, per rivelare una grande carica energetica. Il danzatore/attore sta fermo per un’ora e mezza. Nessun gesto, nessun movimento. Eppure si muove. Stare immobile, ecco l’azione fisica che ha scelto di compiere. Il movimento – come per il drammaturgo che sta seduto davanti allo scrittoio -, è in-scritto nel corpo e il corpo è concepito come spazio scenico. Il corpo si carica di percezioni e di vibrazioni fisiche. Genera una mutazione chimica che marca il destino dell’artista e definisce un nuovo rapporto tra azione e colore, tra colore e secrezione. La colorazione dell’epidermide e l’uscita di secrezioni blu da tutti gli orifizi corporei non sono effetti speciali, ma i frutti di un processo biochimico fuori dell’ordine conosciuto e dell’ordinario. Il flusso delle immagini - generato da una piccola telecamera installata su un robot che raccoglie i dettagli della trasformazione del corpo - e il flusso dei suoni - realizzato in presa diretta come risultato del lavoro compiuto nello spazio scenico del corpo -, confermano la organicità delle forme e la natura performativa della creazione artistica: vera, crudele, barbarica.

Blue provisoire” è un perfetto evento intermediale, polidimensionale e sinestetico. S’insinua nel corpo/mente che è senza confini e senza limiti, offre una visione febbrile del potenziale nascosto nell’uomo, situa lo spettatore in una dimensione altra, comunica l’impalpabile, sfiora la soglia del favoloso possibile, rivela un rapporto in divenire tra il teatro e le neuroscienze. L’evento performativo non doppia la realtà, e non la ri-crea neppure: è la realtà. Realtà viva, palpitante, osservata mentre accade. Marussich, con il sostegno di alcuni scienziati, ha compiuto un esperimento di straordinaria efficacia capace di generare stupore, confermando il mistero e l’illimite del corpo/mente. L’evento non può essere ripetuto. Deve essere ri-fatto ogni volta, come fosse la prima volta. Un evento che afferma il rapporto corretto tra arte e scienza, tra arte e tecnologia, tra arte e poesia. Marussich è un autore geniale, impegnato sul versante di uno dei teatri possibili più affascinanti.

6. Credo che sia utile fare, a questo punto, una riflessione sulle azioni fisiche. Il lavoro sulle azioni fisiche interessa l’arte dell’attore/danzatore: direttamente attraverso l’autogestione dei processi organici e indirettamente attraverso lo stimolo esterno che proviene dal testo linguistico dello scrittore. Il drammaturgo prima scrive il testo fisico e poi scrive il testo linguistico, e lo mette a disposizione dell’attore/danzatore. Fa questo lavoro pensando all’attore/danzatore, non allo spettatore. Dunque, parlare dell’arte dell’attore/danzatore vuol dire non solo parlare del processo per la produzione di forme organiche, ma anche dello stimolo esterno derivante dal testo fisico dello scrittore, presente sottotraccia nel testo linguistico. E parlare di azioni fisiche significa prendere in considerazione la straordinaria intuizione di Stanislawkij - il quale disse che il metodo delle azioni fisiche era il risultato del lavoro di tutta la sua vita -, per arrivare alla elaborazione che ne fece Grotowski in tempi successivi. Non solo riconosco il debito verso queste due grandi figure del ‘900 - Stranislawskij e Grotowski -, per quello che mi hanno insegnato sull’arte dell’attore/danzatore, ma per avermi messo nella condizione di capire che il lavoro sulle azioni fisiche poteva essere applicato proficuamente alla scrittura drammaturgica (ripeto, prima va scritto il testo fisico, poi il testo linguistico).

Per raccontare la filosofia del lavoro sulle azioni fisiche, applicato all’arte dell’attore/danzatore e alla scrittura drammaturgica (“La luce dell’ombra”, Infinito Edizioni, 2012) mi avvalgo del discorso che Thomas Richards ha sviluppato nel libro Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche (Ubulibri, 1997), mettendo a confronto le idee del maestro russo con quelle del maestro polacco.

“Perché, scrive Richards, Grotowski usava la parola ‘fisiche’ invece di psicofisiche? Perché alla fine della sua vita parlava di azioni fisiche mentre gran parte della sua ricerca precedente si era basata sul richiamare precise emozioni? E questo metodo come si mette in pratica?” (op. cit. pag. 104). Richards, per cercare di dare una risposta a queste domande, avvia il ragionamento mettendo in evidenza alcune differenze tra il pensiero di Stanislawskij e quello di Grotowski. “Per Stanislawskij organicità significa le leggi naturali della vita normale che, attraverso struttura e composizione appaiono sulla scena e diventano arte, mentre per Grotowski organicità indica qualcosa come il potenziale in un corpo umano di una corrente quasi biologica d’impulsi che vengono dall’interno e vanno verso l’adempimento di una azione precisa”(op. cit. pag. 104). Stanislawskij costruisce il suo metodo “attraverso l’osservazione della vita quotidiana e dei giochi sociali”, mentre il lavoro di Grotowski “non ritrae il gioco sociale abituale o i dettagli realistici della normale vita quotidiana”(op. cit. pag. 113). A questo proposito è opportuno ricordare come Stanislawskij si fosse interrogato più volte sulla inapplicabilità del metodo a tutti i generi di teatro, con particolare riferimento ai grandi testi di poesia teatrale. In riferimento al personaggio, “Stanislawskij ha centrato la sua ricerca sullo sviluppo di un personaggio all’interno di una storia e nelle circostanze raccontate in un testo teatrale. L’attore si domandava: qual è la linea logica di azioni fisiche che farei, se mi trovassi nelle circostanze di questo personaggio? Nel lavoro di Grotowski, invece, gli attori non cercavano mai i personaggi. I personaggi apparivano solo nella mente dello spettatore a causa del montaggio costruito da Grotowski come regista. In modo simile, nel lavoro con Grotowski, “anche noi – aggiunge Richards-, creavamo direttamente con ricordi personali. Spesso c’era anche un testo, ma non abbiamo mai recitato personaggi” (op.cit. pag. 97).

Ho lavorato a lungo con gli attori/danzatori sulle strutture e sui processi organici. Ho capito che le azioni fisiche, nella loro concretezza viva, dicono molto della loro essenza e poco della loro apparenza. Sono portatrici di qualcosa che non è sottoposto alla luce della coscienza. Certamente della loro apparenza ne usufruiamo allo sguardo, ma soprattutto ne godiamo nel cuore e nella mente. E l’attore/danzatore assume le combinazioni offerte dall’autore del testo linguistico come materiale da arricchire e sul quale innestare la produzione delle forme organiche - vive, credibili -, che saranno poi montate dal regista.

“Potevi ricordarti di un momento della tua vita – aggiunge Richards -, o della vita di qualcuno che ti era vicino, o di un evento preciso nella tua fantasia ma che non era mai accaduto, che avevi intensamente desiderato che accadesse. L’accento non era sulla creazione di un personaggio” come essere vivente, “ma sulla formazione di una struttura personale in cui la persona che agiva potesse avvicinarsi a un asse interiore di scoperta. Tutto questo doveva, poi, essere strutturato e ripetibile”(op.cit. pag. 87). Non c’è azione fisica che non sia collegata ad una necessità e finalizzata alla comunicazione di quanto può essere detto e/o di quanto non deve o non può essere detto.

Movimento del desiderio e movimento del pensiero sono profondamente intrecciati: l’uno corrisponde all’altro. E’ in questo scambio che sta il nerbo della creazione artistica. In altri termini si può dire che ogni azione fisica ha bisogno di uno stimolo esterno, da cui scaturisce un impulso interno, portando con sé ritmo ed energia. Per tenerla in vita è a volte necessario ridurla in frammenti significativi, ciascun dei quali va perfezionato con opportune specificazioni di qualità funzionali alla comunicazione. Il segreto - se c’è -, sta sotto la pelle. Si vede soltanto quando è diventato un’azione.

La questione relativa alla creazione di una struttura fisica è stata illuminante. Mi ha spinto a fare una scelta radicale, applicando il lavoro sulle azioni fisiche alla scrittura drammaturgica e determinando una svolta che è stata una vera rivoluzione metodologica. Ho compreso quanto fosse importante partire da una attrazione formale iniziale per elaborare una struttura significante destinata al contatto con una struttura del profondo, ovvero con il mondo possibile che mi apparteneva. Un contatto che genera calore nella pancia, dimenticanza, perdita leggera di lucidità. Genera una reazione, un movimento che è dato dalla dilatazione del corpo e della mente, che giustifica il principio
secondo il quale solo se mi perdo posso ritrovarmi e che appare come uno degli scopi fondamentali del teatro.

Come drammaturgo ho compreso che la creazione di strutture, con la conseguente attribuzione di titoli in funzione di stimolo e di orientamento, costituiva il modo concreto per avvicinarmi ad un asse interiore di scoperta, consentendomi molteplici risultati: produrre un materiale linguistico palpitante di vita; lavorare per l’autodeterminazione del personaggio attraverso un tessuto di azioni fisiche; procedere coerentemente secondo la strategia del movimento che va dalla dal fare al dire, dalla cosa al come, dal materiale all’immateriale, come conseguenza di analisi e di trasposizione di un fenomeno fisico. Ho compreso di conseguenza che la collocazione di un suono o di una immagine nello spazio è questione che interessa prima di ogni altro il drammaturgo; che ricordare vuol dire rimembrare, stabilendo una connessione tra desiderio e pensiero ; che vedere cose che non ci sono e che non sono mai accadute prima vuol dire accoglierle, in-scriverle nel corpo, cioè nel sangue, che Barba chiama motore interno, motivazioni personali, invisibile; che “la cruda voce del sangue” genera il mio pensiero - e la parola, se e quando risulterà necessaria -, dopo aver masticato e digerito lo spirito che lo vivifica, trasformandolo nei ritmi della carne, nelle scansioni del corpo sociale, come sostiene Corrado Bologna.

Lavare i piatti è una attività, ma rompere i piatti per pratica maldestra determinata dalla preoccupazione di una donna per la grave malattia del marito, è una azione fisica. Se, dopo aver lavorato su questa azione fisica, voglio modificarla, non lo faccio a freddo: recupero quello che stavo vedendo con l’occhio interiore o ascoltando con l’orecchio interiore, e alimento l’immagine con ulteriori dettagli - il rumore dei piatti che scivolano, che si rompono, che feriscono una mano, eccetera -, per tenere viva l’azione che produce pensiero, per tenere vivo il pensiero che - masticato e digerito - tiene vivo il motore del sangue, per tenere vivo il motore del sangue che genera a sua volta pensiero. Ho compreso che solo così posso in-scrivere le azioni fisiche nel mio corpo/mente di scrittore. Solo così posso sperimentarne il funzionamento. E quello che faccio con il ritmo e l’energia lo faccio anche con il tono, pronunciando o immaginando di pronunciare le parole - se ci sono, e ci sono soltanto se ritengo che siano strettamente necessarie -, scomponendo e ricomponendo la frase, mettendo in relazione il fare con il dire sottratto alla pratica della descrizione mimetica e della narrazione logico-lineare.

La manovra mi conferma ogni volta che la ragione non serve per fare teatro e che l’azione fisica immaginaria può essere ri-fatta ogni volta come fosse la prima volta, tante volte quante ne saranno necessarie per il conseguimento del migliore risultato possibile come intreccio della comunicazione chiara e della comunicazione oscura.

Comprendere vuol dire continuare a comprendere che quella determinata azione fisica non la conoscevo, ma esisteva già, che esisteva prima ancora che la conoscessi e che stava nel mio corpo di uomo plurale e indivisibile. Anche le parole che sto scrivendo in questo momento non sapevo di conoscerle, eppure c’erano: erano in-scritte nel mio corpo/mente. Insomma, l’abbandono del lavoro sugli stati emozionali del personaggio come essere vivente e l’applicazione del metodo delle azioni fisiche alla scrittura di un testo linguistico (preceduta dalla scrittura di un testo fisico) ha liberato energie creative e ha reso più solida e sicura la manovra. Ora, se mi concentro - per esempio – sul modo di camminare o di ascoltare di un personaggio, godo di un controllo totale, data la concretezza dell’azione fisica o della struttura, e sono in grado di trovare la forma per dire ciò che è indicibile o invisibile: il che è non è cosa di poco conto.

Il corpo pensa, l’azione fisica parla, il comportamento pesa più della parola parlata. Contribuisce a dare spessore e complessità all’opera. Percepito lo stimolo, reagisco e, se devo camminare, cammino per una necessità specifica e su una determinata strada, pur restando seduto sulla sedia. Posso rompere piatti, zappare la terra, navigare, ascoltare e persino volare, restando nella stanza in cui lavoro. Tre le regole: progettazione, rigore metodologico e pratica quotidiana. Non cedo alle improvvisazioni dettate da pigrizia, imperizia o impazienza. Ricordo ancora l’amico che pretendeva di scrivere sotto la spinta dell’ispirazione: scriveva poco o nulla, perché l’ispirazione arrivava raramente o non arrivava. Certo, anche il lavoro sulle azioni fisiche ha bisogno d’ispirazione, ma l’ispirazione nasce dal fare, nasce scrivendo, soprattutto se si lavora con il metodo delle azioni fisiche.

Quando scrivo non sono il personaggio al quale trasferisco idee, sentimenti o psicologie: non sono la donna che rompe i piatti, ma il drammaturgo che esplora il comportamento di una donna preoccupata per la malattia del marito, che risponde agli impulsi del suo corpo/mente di uomo plurale e indivisibile e che cerca di avvicinarsi a un asse interiore di scoperta, producendo un materiale linguistico incandescente, caotico, da lasciar raffreddare, correggere e distillare a beneficio della scrittura del testo fisico dell’utilizzatore finale. Il dire scaturisce dal fare. Cerco di non dimenticare mai questa regola. Mentre scrivo, non mi chiedo mai cosa dice il personaggio, ma cosa fa e perché lo fa, limitando al minimo necessario le battute che inserisco solo dopo aver completato e verificato la credibilità della struttura. Una volta portata a maturazione la materia sensibile, verifico il rapporto di collaborazione tra il fare e il dire, tenendo sotto controllo il principio di necessità e scartando la tentazione latente di dire ciò che deve rimanere nel silenzio riempito del non-detto.

Non è opportuno in questa sede affrontare il tema delle verifiche intermedie e finali, prendendo in considerazione tutti gli aspetti della manovra consistente nella scrittura, tra i quali l’adattamento della parte visiva alla parte sonora e della parte visiva a quella verbale. Nell’ambito di questa riflessione sul metodo delle azioni fisiche applicato fondamentalmente all’arte dell’attore e solo di riflesso alla scrittura drammaturgica basta dire che alcune battute potranno essere aggiunte lavorando sui dettagli o che potranno essere eliminate in base al principio di necessità, orientata dalla relazione tra il fare e il dire.

I lavori di scarto, di perfezionamento delle azioni fisiche e di controllo delle strutture mi costano di solito molto impegno. Aggiungo battute soltanto se creano un valore aggiunto, se non generano tautologie, se non spiegano i comportamenti, evitando così errori che pagherei a caro prezzo in termini di perdita di efficacia e, ancora, di credibilità. Il testo linguistico che offro all’attore è costituito da una tessitura di azioni fisiche (diverse da movimenti, attività e gesti, come ha spiegato ripetutamente Grotowski) che non si risolvono, come ci ricorda Franco Ruffini “nello stato psichico, nell’emozione o nella passione a cui si associa. Al contrario, la passione non è altro che la serie delle azioni attraverso le quali si manifesta” (Teatro e Storia, pag.214). A questo proposito è significativo il racconto che Grotowski fece dopo aver visto all’Hunter College l’attore Vassilj Toporkov che, recitando in uno spettacolo, trasformò la partitura di conferenza in partitura di battaglia, incentrata sulla lotta per la conquista dell’attenzione degli uditori. Un fatto che illumina il potenziale della metodica. Una pratica che ha cambiato la mia scrittura per la prima volta, mentre il computer l’ha cambiata per la seconda volta, favorendo il massimo del rigore possibile nella fase di distillazione della materia linguistica fino alla imperfezione finale.

Quando raccontavo storie per il teatro dialogico, mettevo l’attore e il regista nella condizione banale di trasformare la parola scritta in parola parlata, mentre oggi offro all’attore un’autonomia artistica che si realizza attraverso lo stimolo del testo fisico che sta alla base del testo linguistico. “In quanto corpo - afferma Franco Ruffini - è ovviamente disomogeneo rispetto al testo linguistico. Ma il testo fisico, (la composizione fisica istituita a testo) che il corpo dell’attore ‘scrive’, in quanto testo, è del tutto omogeneo al testo linguistico” (op. cit. pag.210). Data la prima natura (del quotidiano) e la seconda natura (dell’extraquotidiano), ne consegue che “con il lavoro su se stesso, l’attore non si addestra ad ‘interpretare’ (anche se ovviamente ne pone le basi): apprende soltanto i principi pragmatici sui quali forgiare, continuando poi per tutta la vita, la sua seconda natura” (op. cit. pag.212). L’invito che l’attore/danzatore riceve con il testo linguistico – radicato nel testo fisico - è quello di scoprire in sé un altro - una donna che rompe i piatti mentre li lava, un santo, un assassino o un ladro -, a condizione che non si opponga al proprio opposto e che abbia forgiato la seconda natura.

In grande sintesi. Scoprire in sé un altro è il compito del drammaturgo, prima che dell’attore/danzatore. Non sono un ladro, ma posso scoprire in me di essere un ladro che si autodetermina attraverso le azioni fisiche strutturate di un ladro di nome Franco e l’affido ad un attore/danzatore che, a sua volta, non è un ladro o un assassino, ma che - opportunamente stimolato dalla tessitura sensibile del testo linguistico - creerà una combinazione di strutture personalizzate, arricchite, che gli consentiranno di scoprire non una vita reale, ma qualcosa che abbia la potenzialità di una scoperta. Al regista è affidato il compito di montare le strutture facenti parte della scrittura scenica ed è riconosciuto il ruolo di autore dello spettacolo, mentre all’attore/danzatore è riconosciuto il ruolo di coautore per aver scritto il testo fisico su una linea di omogeneità con il testo linguistico. E lo spettatore? Lo spettatore che si sente utile di fronte alla visione dello spettacolo individua il personaggio del ladro o dell’assassino ed elabora una drammaturgia originalissima - diversa da quella generata dal drammaturgo, dall’attore e dal regista.

Se il ladro è mio nonno, suggerisce Richards nel suo libro, ciò che trovo non sarà la corporeità del mio vero nonno, ma sarà la mia. Non sarà uguale, sarà simile, ma sarà credibile: questa è la cosa importante. “Non sarà stata come essa è stata, ma come avrebbe potuto essere” (op. cit. pag. 88), il che sta a significare che può bastare un ricordo, un sapore, un odore o una immagine per scoprire impulsi organici e può bastare la individuazione di un bisogno o di una necessità per scoprire e dare concretezza ad un’azione fisica o ad una sequenza di azioni fisiche. In tal senso, parafrasando Barba, si può dire che per azione fisica s’intende quella esperienza che cambia il drammaturgo; che, a sua volta, contribuisce di rimbalzo a cambiare l’attore/danzatore e a fargli scoprire il suo “qualcosa”; che infine serve a modificare la percezione dello spettatore verso l’attore/danzatore, facendolo sentire utile. Non credendo in comportamenti più o meno naturali che spingerebbero verso il velo della superficie e delle convenzioni -, il drammaturgo scrive un testo pensando ad un attore/danzatore forgiato sul versante della seconda natura, quella extraquotidiana. Solo se sarà allenato su questo versante saprà usare il corpo-che-scrive e scriverà un testo fisico, che sarà – come puntualizza ancora Franco Ruffini -, “nella sua collaborazione con la scena, proprio il fattore di ‘direzione’, l’origine che consentirà, per attrito o per resistenza, ai fattori di flessibilità della scena di esprimere, e non dissipare, le proprie energie”(op.cit. pag. 212).

7. Il lavoro sulle azioni fisiche consente all’attore/danzatore bene allenato di autogestire il processo organico. Il testo linguistico, scritto dal drammaturgo e fondato su un testo fisico, gli offre lo stimolo esterno necessario. Il processo organico implica l’atto totale dell’attore/danzatore. Chiama in causa la parte materiale e la parte immateriale dell’essere umano nella prospettiva delle produzione delle forme organiche. Le forme sono organiche in quanto generate da un processo biochimico autogestito che le rende vive, credibili, affascinanti. Traggono origine da uno stimolo esterno, nascono nel corpo, sono guidate dalla mente, conquistano il cuore e la mente dello spettatore.

L’attore/danzatore, per il quale scrive il drammaturgo che applica il metodo delle azioni fisiche alla scrittura di un testo linguistico, non si pone il problema d’incarnare il personaggio. Non riorganizza di volta in volta un bagaglio tecnico-emotivo di momenti vissuti nella vita reale o immaginaria. Il suo lavoro - nella consapevolezza del valore extraquotidiano e del livello pre-espressivo del linguaggio teatrale, sui quali non indugio rinviando al prezioso contributo di Eugenio Barba -, ha inizio con la elaborazione di una struttura di azioni fisiche circostanziate, necessaria ad attivare il processo in questione che favorisce l’ingresso nella dimensione della soglia, dove l’attore/danzatore si perde e si ritrova in continuazione. La produzione della materia invadente sottoposta alla tensione guidata produce un effetto destabilizzante, genera il caos e trasforma la carne in corpo glorioso. Quella che segue è una sintesi delle fasi relative al processo organico.


Stimolo esterno

Impulso interno.

Azioni fisiche con il portatodi ritmo e di energia

Specificazioni di qualità delle azioni fisiche.

Controllo e perfezionamento del processo associativo.

Intreccio del movimento del pensiero e del movimento del desiderio.

Ampliamento del campo percettivo: dilatazione del corpo e della mente
nella dimensione della soglia.

Cesura, attraverso la quale entra il mondo.

Produzione della materia invadente che destabilizza e genera il caos.

Produzione delle forme organiche, fino al canto, fino alla danza.


Il controllo del processo associativo e l’arricchimento delle specificazioni di qualità dell’azione fisica sono passaggi importanti per alimentare e tenere in vita l’azione fisica e renderla credibile. A questo proposito ritengo opportuno riportare alcuni frammenti della Lettera ad un attore del 1967 di Eugenio Barba: “Non credo in quello che fai. Il tuo corpo dice solo una cosa: obbedisco ad un ordine ricevuto dall’esterno. I tuoi nervi, la tua colonna vertebrale, il tuo cervello non sono impegnati, e con una attività epidermica vuoi fari credere che ogni azione è vitale per te. Tu stesso non avverti importanza di quello di cui vuoi rendere partecipe lo spettatore. […] Tu rappresenti la collettività in questo luogo, con le umiliazioni che hai subito, con il tuo cinismo che è autodifesa e il tuo ottimismo che è irresponsabilità, con il tuo senso di colpa e il tuo bisogno di amore, con la tua nostalgia per un paradiso perduto, nascosto nel passato, nell’infanzia, nel calore di un essere che ti faceva dimenticare l’angoscia. Ogni persona presente in questa sala sarà scossa se tu effettuerai, durante la rappresentazione, un ritorno a queste origini, a questo terreno comune dell’esperienza individuale, a questa patria che si cela. Questo è il legame che ti unisce agli altri, il tesoro sepolto nel più profondo di noi stessi, mai messo allo scoperto, perché è il nostro conforto, perché fa male a toccarlo”. Il lavoro sulle azioni fisiche in funzione del processo organico servono a utilizzare il patrimonio nascosto in ogni essere umano.


8. Di segno opposto al processo organico è il processo di astrazione. Non si può dire tuttavia che il processo organico sia garanzia assoluta di successo. Anche il processo di astrazione può generare uno spettacolo affascinante. Basti pensare al teatro orientale che nella codificazione trova il suo punto di forza. Nel teatro occidentale il rischio di fallimento, soprattutto nel campo della danza, è alto. L’astrazione paga un forte debito alla ragione, agli stilemi coreografici legati a contenuti intimistici, alla ripetizione di forme tendenzialmente estetizzanti, alla centralità degli arti inferiori e superiori, in grande sintesi alla mancanza di energia vitale che rende lo spettacolo stereotipato e algido.

Le persone non vanno a teatro per essere informate, educate, acculturate; per assistere a elucubrazioni intellettuali o a manipolazioni estetiche, ma piuttosto per provare emozioni, stupori e sentimenti, in altre parole per provare piacere. Quando il piacere non c’è, cade uno degli obiettivi fondamentali del teatro: cade il teatro.

Lloyd Newson non ha dubbi a questo proposito. Sostiene che nella maggior parte degli spettacoli di danza o di teatro-danza la vita non c’è. C’è la danza e c’è la forma, ma quando il rigore della forma prodotto dai processi di astrazione non è accompagnato da una carica energetica seduttiva, quando il pensiero non è passione, si ottiene l’effetto boomerang del respingimento. A un idraulico non chiediamo di avere capacità di seduzione, ma di essere abile e onesto nel lavoro. La richiesta è d’obbligo quando ci troviamo di fronte a un artista che offre la sua opera. Le tecniche sono importanti, ma a volte non bastano. Le tecniche sono comunque strumenti, non finalità della creazione artistica. Il fascino, che va a braccetto con la godibilità e la credibilità dell’opera, fa parte della richiesta implicita dello spettatore che acquista il biglietto. Se fascinazione e credibilità vacillano, vacilla – per dirla brutalmente - l’utenza.

Nelle Rassegne che frequento vedo che l’edonismo ha sostituito il piacere del corpo e ha determinato il formalismo algido di chi non ha trovato il modo per comunicare quello che voleva comunicare. Nella maggioranza degli spettacoli c’è logos, ma non c’è mèlos, non c’è eros, non c’è amore. C’è l’involucro, ma non c’è la sostanza sensibile, capace di suscitare stupori ed emozioni. Vedo molti danzatori/attori e pochi uomini, molte aure poetiche e pochi comportamenti poetici. Assisto all’uso di nuove tecnologie non suffragate dal principio di relazione e dal principio di necessità. Vedo disattenzione profonda nei confronti della dualità e del movimento della creazione artistica che va dal concreto all’astratto, dal materiale all’immateriale, dal fare al dire, non viceversa. Vedo spine dorsali dure come bastoni, respirazione a bocca aperta che ostacola l’accensione delle pareti interne del corpo, maschere facciali fisse che vengono esibite per l’intera durata dello spettacolo. Non vedo caos, ma stasi emotiva e mancanza di comunicazione. Non vedo autonomia creativa, ma dipendenza di un soggetto da un altro soggetto. Non vedo forme credibili, ma clichès prodotti dalle convenzioni imperanti.

Come ho già detto, neppure il processo organico è in grado di offrire la certezza dei risultati artistici, proprio perché si tratta di un processo e non di una formula o di una ricetta. Pur disponendo di una forte carica aurorale, il processo organico non garantisce in assolto la produzione delle forme organiche. Ha bisogno di contare sulla individualità dell’artista, su una specifica azione formativa, su un allenamento assiduo, ma anche su un quid imponderabile che l’artista o ha o non ha, ed è il suo talento. Offre credenziali di maggiore credibilità ed efficacia perché consente di entrare - come sostiene Bataille -, in una specie di tomba dove l’infinito del possibile nasce dalla morte del mondo logico. Il logos scorre nelle viscere, per dirla con Rella (op. cit. pp.47,48,51.)., e con Testori, e quando ci accade di dimenticarlo, scorgiamo alle nostre spalle “una catena luttuosa in cui si inanellano i corpi e le passioni sacrificate”.

Leggendo i programmi di sala mi sono trovato di fronte a una catena luttuosa di “spettacoli sbigottiti” senza sbigottimento, di “sensualità ammiccante e travolgente” senza stupore e coinvolgimento, di offerte “travolgenti” senza partecipazione emotiva, di “corpi sopraffatti da una ardore senza sbocchi” sofferenti di sopraffazione del dato; di “racconti immorali a caccia di forme e di figure nel presupposto che “attraverso la forma si possa penetrare nella sostanza”; d’idee bizzarre come “la propriocezione, o sesto senso: flusso sensorio continuo ma inconscio proveniente dalle parti mobili del nostro corpo, che ne controlla e ne adatta di continuo la posizione, il tono e il movimento in modo che a noi rimane nascosto perché automatico ed inconscio”, responsabile di "trivelli/rovelli/vortici/avvitamenti con relativa perdita del sé corporeo”.

Il lavoro critico mi ha posto davanti a domande ambiziose come questa: “Che cosa succede ad un corpo immerso nel quotidiano scorrere del tempo in un ambiente asettico e invaso dalla massiccia presenza del suono?”. Per fortuna, alla domanda seguiva la risposta che non avrei saputo dare nella sua piena vaghezza: “i corpi si misurano con lo stare dentro una rappresentazione, liberi di aderire a questo meccanismo oppure di voltargli le spalle”.

Frammenti di spettacoli mi assalgono ancora, informandomi sui “nobili recessi del cuore”, sui “vasti sepolcri della natura”, sugli “uragani primordiali” e sui “caos esistenziali” in petti compressi e doloranti, posti come artefatti in teche cimiteriali, calcificate, della disfatta finale, dopo “improvvisi salti emotivi”, dopo “l’incertezza del proprio destino legato alla posizione distesa del corpo” in una sala chirurgica “dove tutto si subisce in silenzio”, a significazione non di una ricerca della vita nella morte, ma come accumulo di reperti archeologici che esplicitano un discorso sulla “carne della nostra esistenza, del nostro dolore, del nostro conoscere”. Parole in libertà, legate a un progetto di scorporizzazione del teatro, legittimo come ogni altro progetto di scrittura drammaturgia o di scrittura scenica, ma che produce spesso il risultato non auspicabile di far sentire inutile lo spettatore. Non sono contrario a priori ad alcuna forma di teatro, anche codificato, ma ritengo che il teatro fondato sulle azioni fisiche e sui processi organici sia più adatto ai paesi occidentali, potendo contare sull’apporto di corpi erotici dotati di distacco e di tensione, e sulle sinestesie necessarie a suscitare interesse e partecipazione emotiva. Insomma, la questione di fondo è sempre la stessa: lo spettacolo o conquista o non conquista la mente e il cuore dello spettatore. E’ questo il discrimine tra il buon teatro e il cattivo teatro.