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Per rileggere con gli occhi di questo terzo millennio la scena ribelle e feconda degli anni Novanta


di Laura Novelli

 

È un libro che ha nutrito la passione teatrale di tanti studenti, studiosi, addetti ai lavori, artisti, critici, spettatori. Era il 2000 quando Castelvecchi (proprio qualche mese prima di chiudere) pubblicava Nuova scena italiana di Stefania Chinzari e Paolo Ruffini con un sottotitolo di emblematica lucidità, Il teatro dell'ultima generazione , e una prefazione di Goffredo Fofi. Oggi, a distanza di oltre sedici anni, il volume torna in libreria per i tipi di Editoria & Spettacolo con un sottotitolo aggiornato e altrettanto emblematico, Il teatro di fine millennio , un'introduzione dei due autori, una seconda prefazione di Fofi e nuovi contributi a firma di Romeo Castellucci, Simone Derai, Viviana Gravano e Raimondo Guarino.

Il corpo del volume, riedito anche perché la chiusura di Castelvecchi non ne aveva permesso un'adeguata distribuzione e un'adeguata tenitura in vita, resta però immutato. Quella fotografia puntuale, ampia, stratificata, ragionevole e ragionata che, all'interno di una strutturazione non banalmente diacronica delle opere e delle operazioni citate (e con importanti sguardi trasversali), risultava già allora esaustiva e prodiga di intuizioni felici, mantiene intatta tutta la sua incisività critica.

Al centro della trattazione si posiziona l'ampio quadro della sperimentazione fiorita in Italia tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Prima cioè che, a causa dell'attentato alle Torri Gemelle, il mondo fosse costretto ad aprirsi <<alla necessità – scrivono gli autori – <<di una comprensione delle cose ben oltre la prospettiva esclusiva dell'Occidente>>. La precarietà dell'oggi fa i conti dunque con una precarietà che tuttavia già negli anni Novanta – quelli della  glasnost , del crollo del Muro e della guerra nei Balcani – minava l'esistenza quotidiana riflettendosi, artisticamente parlando, in forme di ricerca spesso e volentieri centrifughe rispetto al linguaggio, al testo, all'intercambio dialogico, alle impalcature consolidate di una certo teatro di tradizione. Di qui la natura poliedrica, eclettica, inquieta di quella sperimentazione, in molti casi anagraficamente molto giovane, che ha saputo segnare linee di confine nevralgiche con le arti figurative, la danza (cui è dedicato un capitolo ad hoc), la performance, la video-arte. E se questa commistione “linguistica” è destino comune di quasi tutti gli snodi avanguardistici della civiltà creativa, tanto più nel periodo preso in esame le ragioni e i motori di questa spinta al nuovo (o meglio “al contemporaneo”, come ben illustra il saggio della Gravano) assumono nomi chiari e precisi. Sarà soprattutto la Socíetas Raffaello Sanzio, con la sorprendente rivelazione rappresentata dal lavoro Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco (la cui genesi viene raccontata dallo stesso Castellucci in una lunga intervista), a demarcare in modo netto un prima e un poi. Ma anche tutto quel teatro “di passaggio”, che trova in realtà quali, tra le altre, I Magazzini, Le Albe, Giorgio Barberio Corsetti, la Valdoca i suoi fulcri più significativi, avrà un ruolo importante nella nascita di nuove energie. Come in un gioco di onde, da questa linfa vitale di visioni e modus operandi (a loro volta imparentati con la rottura capricciosa di Carmelo Bene e tutta la ricerca degli anni Settanta e impressionati anche dalle esperienze di Martone e Ronconi) si arriva appunto alla forza innovativa della Socíetas e da questa, a sua volta, a tutta quella generazione attiva nell'ultimo decennio del Novecento che (cito, ad esempio, Lenz Rifrazioni, Motus, Teatrino Clandestino, Fanny e Alexander, Accademia degli Artefatti) ha costituito una vera e propria “terza ondata” di ricerca espressiva.

Senza dubbio salta agli occhi lampante la connotazione per lo più romagnola dei gruppi nati a fine millennio (si parlava allora di Romagna felix) ma credo che la geografia non sia sostanziale (come non pensare a Napoli e a quanto del nostro teatro, anche di ricerca, sia in debito verso quella tradizione antica?). Sostanziale è piuttosto come è cambiato da allora ad oggi il senso di comunità. Ovverosia, il ruolo sociale, politico (nel senso più profondo di umano, di universale) del teatro stesso. Nel volume di Chinzari e Ruffini si raccontano comunità di artisti e spettatori rivoltose che, in qualche modo, volevano cambiare il mondo. La società liquida di oggi ha rotto quella felice unità di intenti e di obiettivi necessari. Oggi <<nella vita vera>> – cito ancora dalla bella introduzione dei due autori – <<l'individuo e le sue abitudini si sono digitalizzate e si stanno smaterializzando negli algoritmi delle couds>>. Oggi ci si trova perplessi di fronte ad una comunità di artisti e pubblico che – spiega Fofi nella nuova prefazione – è una comunità stordita da un senso di accettazione del mondo e non più, tranne qualche raro caso, una comunità di ribelli, di disubbidienti. Come se, in definitiva, il teatro del terzo millennio sia diventato – o rischi di diventare sempre più -  un teatro incapace di rispondere ai bisogni profondi del suo tempo, alle paure dei suoi fruitori, agli interrogativi più attuali e cocenti. 

Motivo per cui un libro così intelligente, “storico” e insieme filosofico, può rivelarsi davvero una lettura ricca di suggestioni sia per chi ha seguito e conosce la scena di quegli anni, e meglio può ragionare su come certi percorsi siano proseguiti, si siano trasformati o addirittura esauriti, sia per i più giovani: per tutti quegli appassionati che hanno perso certe visioni e grazie a quest'opera possono ricostruirne una personale memoria. Confrontare l'oggi con lo ieri. Guardare il teatro e “al” teatro contemporaneo conoscendone meglio le radici, la carica eversiva. E dunque la sua reale, sostanziale “novità”.      

 

 

Nuova Scena italiana. Il teatro di fine millennio

Stefania Chianzari - Paolo Ruffini

Editoria & Spettacolo, Spoleto, 2016, pp. 342, euro 25,00

in copertina illustrazione di Alessandro Temi