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Tutti abbiamo bisogno di mani che ‘ci accarezzino il viso': il nuovo lavoro dei Biancofango si muove tra Brecht e Büchner per raccontare la fragilità contemporanea

di Laura Novelli



 

La fragilità è il loro terreno di esplorazione elettivo. La fragilità delle idee e degli ideali. La fragilità dei sentimenti. Dell'individuo. Delle relazioni. Delle certezze. Del futuro. Dei ricordi. La fragilità dei giovani e degli adolescenti. La fragilità del mondo e di Dio; quella del mondo senza Dio . E infine (e tanto più): la fragilità del teatro.
L'hanno intelligentemente raccontata nel primo trittico di spettacoli che li ha fatti conoscere a critica e pubblico, In punta di piedi (2006), La spallata (2007), Fragile show (2009), raccolti sotto l'emblematico titolo Trilogia dell'inettitudine (le cui rispettive drammaturgie sono state pubblicate in un volume di Titivillus con prefazione di Attilio Scarpellini) . L'hanno declinata intercettando l'irrequietezza tenera e spericolata di quel gruppo giovanile così ‘vero' descritto in Culo di gomma (2012). Poi ne hanno disegnato, con plastica e disarmante malinconia, un ritratto impietoso in Porco mondo (sempre del 2012), dove una serata di Natale si frantumava sotto la furia di delusioni di coppia tremanti di angoscia e pianto.
La stessa fragilità sottile e barbarica, lieve e pensante, l'hanno quindi messa in scena nella visione/revisione di un amore shakespeariano – alludo a Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri - dai contorni contemporanei che, affidato alle corde espressive acerbe ma intense di ragazzi/attori non professionisti reclutati in diverse scuole superiori di Roma (più di recente anche di Napoli e Genova), trasformava una partita di calcio nel ring di un'incomunicabilità generazionale senza rimedio.
Adesso Francesca Macrì e Andrea Trapani, ovvero le due anime pulsanti della compagnia Biancofango, cui si aggiunge ancora una volta (dopo la bella prova di Porco Mondo ) il prezioso contributo dell'attrice Aida Talliente, quel precipizio nel vuoto e delle disintegrazioni del cuore, la elevano a materia del loro ultimo lavoro, Io non ho mani che mi accarezzino il viso , che segna una cesura forte con le loro precedenti produzioni e che senza dubbio, pur senza rinnegare quanto seminato in passato, apre una nuova fase di ricerca stilistica.

 


Già il titolo di questo importante spettacolo, debuttato al Romaeuropa Festival 2017 (Teatro India) e poi presentato all'Elfo si Milano e al Teatro della Tosse di Genova (ma in ripresa a febbraio con ulteriore tournée), possiede una sua implicita fragilità. Ispirato ad una poesia di David Maria Turoldo (<< Io non ho mani /che mi accarezzino il volto, /duro è l'ufficio/di queste parole /che non conoscono amori/non so le dolcezze/dei vostri abbandoni: /ho dovuto essere /custode/della vostra solitudine: /sono
salvatore/ di ore perdute.>>) e a una sequenza di fotografie di Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il viso pone l'essere donna e l'essere uomo - e tanto più l'essere attrice e attore - nella vacuità di una forma scenica ‘aperta', quasi brechtiana, straniata, dove l'io degli interpreti intreccia di continuo il vissuto scenico di due personaggi drammatici molto noti: Santa Giovanna dei Macelli di Brecht e Woyzeck di Büchner.
Due vicende diverse eppure affini. Due battaglie personali e, insieme, universalmente emblematiche. Due modi di essere ingenui, idealisti, vittime delle proprie utopie, dei propri principi, della propria sensibilità. Vittime, in definitiva, della propria follia. Li hanno scelti i due egregi interpreti, Trapani (anche co-autore della drammaturgia insieme con la Macrì) e la Talliente, come icone personali di fragilità: maschere immutabili ed eterne che meglio di altre rappresentano il vuoto e l'instabilità umani. Qui infatti Giovanna dei Macelli e Woyzeck diventano voce, parole, storie dentro le quali innestare le proprie voci, le proprie parole, le proprie storie. Storie di illusioni, di ribellioni, di memorie infantili ancora vivide, di paure ancestrali.
Lo spazio è arioso, aperto, scuro: smembrata e abbattuta ogni illusione scenografica. La regia della Macrì è coraggiosa ma limpida, decisa, compatta: nulla è lasciato al caso. Un microfono al centro, un pianoforte di lato, qualche sedia, un lungo tavolo sul fondo. Aida/Giovanna rompe il silenzio pronunciando battute di Brecht, ma quasi le fa nascere da dentro, le rende vive, vibranti; ora deboli, ora più forti. Sembra una preghiera, la sua. E lei sembra una performer più che un'attrice. La sua potenza sta nelle pause, nei movimenti, nelle ripetizioni di gesti violenti, nel sotto-testo fisico (preciso, ripetuto, danzante) e fabulatorio. Andrea/Woyzeck appare di spalle, seduto al piano. La corporatura virile contrasta con l'agilità delle mani con cui esegue dal vivo un brano di Schubert. Non è ancora il personaggio di Büchner. È anch'egli un performer che si abbandona ai suoi ricordi di bambino: la scuola, la paura della maestra, le prese in giro, quei pulcini diventati immagine di poesia. La sua drammaturgia di attore è una costruzione progressiva di innesti tra il personaggio büchneriano e la biografia personale, tra le pieghe emotive di un teatro letterario e quelle energiche di un teatro intimo, agito, scelto a compagno di vita.

 


In questo continuo rimescolamento di materiali, entrambi gli interpreti assumono le sembianze reali e fittizie di paladini della liberà, della miseria umana, della speranza (<<Se sperassimo tutti insieme?>>, ripete spesso lei, lo grida al pubblico, lo scrive addirittura a terra a caratteri molto grandi). Entrambi sono attori/esseri umani che abitano lo spazio sospeso tra reale e finzione dove generare/mostrare il baratro della loro duplice condizione. Si raccontano sogni, vicende di operai in fabbrica, amori perduti. Ma si racconta soprattutto la perdita di un centro. Di un nocciolo di umanità. E perciò siamo tutti dentro questo luogo-non luogo di luci e ombre. Tutti siamo chiamati in causa. Non possiamo sottrarci. Queste paure sono le nostre paure.
I due corpi danzano. Ripetono movimenti che sembrano urla. A tratti si avverte qualcosa di Fragile show o di Porco Mondo e non si può non apprezzare la minuziosa ricerca di una partitura fisica che nasce da un lungo percorso di prove e di improvvisazioni. Così come vuole, d'altronde, un percorso di ricerca che viene dagli esordi. Nel sito della compagnia ( www.biancofango.it ) si legge infatti: << È bello che dove finiscano le parole debba in qualche modo incominciare un attore. Biancofango nasce dall'urgenza di un dialogo altro fra parola e corpo, dall'esigenza di restituire dignità al ruolo dell'attore e di ripensare/riposizionare/ricercare le funzioni del teatro. Così regista e attore, pur nella fissità dei loro ruoli, sentono l'esigenza di scambiarsi ovvero di contenere in sé, in maniera prioritaria, qualcosa dell'altro. Qualcosa che solo nello scambio sul palcoscenico e nella reiterazione, che è propria del teatro, può avere vita. Per un teatro che si strutturi attraverso il corpo dell'attore, per una drammaturgia che in qualche modo ne diventi la sua azione e che non si accontenti mai di rimanere solo parola. Parole in lotta, dunque. Parole rubate alla scena. Eppure a volte senza suono, a danzare dentro il corpo, a creare contorni nuovi per forme conosciute>>.
Ma qui, in questo grottesco gioco di specchi che è Io non ho mani che mi accarezzino il viso , c'è pure e soprattutto tutto un nuovo modo di consegnarsi nudi alla nudità stessa della scena e del teatro. C'è uno svelamento di sé che va oltre la quarta parete. <<E' dunque il cielo sopra di noi chiuso per sempre?>>; <<Per cambiare il mondo deve cambiare l'uomo>>. Eccoci di fronte ad un'epicità lirica, inconsueta e fragile (volutamente), eppure fortissima. Rafforzata tanto più dall'epilogo, quando cade della neve dall'alto quasi a voler immergere nel silenzio di una pacifica folata di bianco le loro/nostre domande più profonde. Su quel palcoscenico spoglio e quasi infinito, esse diventano un appassionato inno all'umanesimo che è in noi. Un richiamo al nostro bisogno ancestrale che ci sia qualcuno o qualcosa ad accarezzarci il viso sempre. E sempre. E sempre.

 

Io non ho mani che mi accarezzino il viso

drammaturgia Francesca Macrì, Andrea Trapani
regia Francesca Macrì  
con Aida Talliente, Andrea Trapani
costruzione scene Teatro della Tosse
luci Gianni Staropoli
suono Umberto Fiore
crediti fotografici Piero Tauro
Anteprima: Romaeuropa Festival, Teatro India, Roma, 1-2 novembre 2017.
Debutto: Teatro Elfo Puccini di Milano, 21 novembre -3 dicembre 2017
Prossime date: Kronoteatro (Albenga), 16 febbraio 2018; Teatro Binario 7 (Monza), 17 e 18 febbraio 2018; Palamostre ( Udine), 29 marzo 2018