Giudizio
critico su
L'ultimo cantico. Dramma in
sei scene
di Davis Tagliaferro
Disamina dell'opera
a cura della redazione di Liminateatri, nell'ambito della collaborazione
tra la Rivista e il Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana
Contemporanea
Nota critica di Giorgio
Taffon
Il testo mette in forma di scrittura
drammatica su pagina il conflitto fra una madre , La Signora,
il figlio, Oscar, e la badante Viviana. La Signora è paralizzata
su una sedia ortopedica a causa di un incidente su cui il drammaturgo
non ha inventato indicazioni di sorta: questo personaggio esplicita
una forte aggressività sia verso il figlio che verso la
badante, come se essi la trascurassero, pensando anche che fra
i due vi sia un rapporto sentimentale che aumenta la trascuratezza
nei suoi confronti; ma, al contempo, lei si dichiara forte, pronta
ad affrontare il dolore di una vita dimidiata, albergando anche
in lei una sorta di scetticismo e\o cinismo nei confronti di tutto
e tutti; il suo eloquio è immaginoso, con tratti di visionarietà
psicologicamente patologica che va a raddoppiare lo stato di malattia
del personaggio; il figlio Oscar e la badante Viviana hanno buoni
motivi per difendersi dalle accuse della Signora, ma al lettore
anche quest'ultima può apparire a sua volta una vittima,
in qualche modo, per cui, nel conflitto, tutti possono aver torto,
come tutti possono aver ragione, elidendosi gli uni con l'altra
e viceversa: chi ha ragione? Chi ha torto? L'unica azione vera,
cardinale, del dramma è l'avvelenamento che la Signora
vuol perpetrare verso i due somministrando loro della stricnina:
forse si salveranno, perché la Signora stessa gli raccomanda
di correre all'ospedale: poi, siamo nel finale, la Signora incontra,
come all'inizio, il suo doppio fanciullesco, a cui promette di
correre all'ospedale per salvarsi anche lei dall'avvelenamento,
che, drammaturgicamente, però, non è stato indicato
dall'autore nel momento in cui avrebbe potuto e dovuto farlo.
Insomma, lo sviluppo drammaturgico del testo porta di fatto a
un'immobilità assoluta, come la stessa Signora dimostra
quando sceglie di rimanere ferma da sempre e per sempre sulla
sua sedia “trono”, una regina che con il suo afflato
affabulatore si erge a unico personaggio, al di là del
bene e del male, un po' eroico, un po' nichilista, un po' poeta,
rendendo in definitiva accessori gli altri due personaggi, la
cui azione è continuamente bloccata. Ma il problema che
a mio parere presenta il testo non è tanto o solo di natura
drammaturgica, ma propriamente teatrale, poiché è
difficile che teatralmente funzionino quei personaggi caratterizzati
da malattie fisiche, almeno quelli impediti ad “agire”;
difatti, semmai, personaggi importanti sono quelli segnati da
disturbi psichici e mentali (diciamo “i pazzi”), la
cui azione, possibile, li porta a scontrarsi con le regole convenzionali
della vita sociale. Qui, difatti, l'unica azione possibile della
Signora che può davvero incidere è quella dell'avvelenamento,
che però rimane sospesa, nei suoi effetti, nei confronti
dei personaggi giovani. D'altra parte va aggiunto che difficilmente
un “malato” in scena funziona, perché è
scontato che simili personaggi soffrano, che siano compatiti dallo
spettatore, che abbiano tutte le ragioni di 'sto mondo; e, d'altra
parte, come già detto, invece il “pazzo” crea
conflitto perché va a toccare regole comuni predefinite,
è “scucciante”, ben che vada.
Ne deriva che inevitabilmente la protagonista, la Signora, sia
una monade sulla scena, che inventa un suo mondo di fantasticherie,
anche letterariamente ben costruito, e che la renderebbe, più
efficacemente, un unico personaggio monologante, che, ingaggiando
una strenua lotta con la vita e col destino, decide infine il
suicidio.
|